Leggo l’articolo di Carlo S. Hintermann sulla critica defunta, sul superamento delle parole-cinema, sull’inutilità oggi di dire e definire cosa è o non è un film. È un articolo radicale, provocatorio, esaltante. Ma non dimentichiamocelo: è un regista, un produttore, a parlare. Non un critico.

Hintermann, come ogni artista, ha una visione. Furiosa, euforica, generosa. Liberatoria. Ma precisa. I suoi film lo attestano. Il cinema dovrebbe essere libero. «Non conoscere ci aiuterebbe a capire che non esistono strutture, non esistono buchi di sceneggiatura, ogni disordine è semplicemente un ordine diverso da quello che ci saremmo aspettati. Meglio non aspettarsi più un “ordine” perché il cinema è libero e dissociato, non ci vuole più come spettatori, non gli interessano più i giudizi, ci scova quando meno ce lo aspettiamo e non ci dà più tregua».

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È UN POSSIBILE manifesto del suo cinema, totalmente disinteressato alle giuste misure, ai quanto basta, a quella forma implicita, pre-ordinata, priva di buchi, verso cui tutto (scuole, piattaforme, idee) sembra tendere: triste, omologata, uniformata.

Inerme e inerte. Morta? E invece il suo è un cinema dove è la vita, a essere il punto, la forma in sommovimento, un’immagine attraversata, trafitta, posseduta da altre che si rigenerano e dimenticano, come se non ci dovesse essere un ordine, una gerarchia, persino una storia. Una bellezza convulsa, demente nel senso di non riducibile all’intelligenza (non c’è nulla di più noioso, nell’arte, dell’intelligenza), autonoma e non bisognosa di certificati. Capace di toccare, di pungere, di svegliare, sfregiando il buon gusto e sdegnando il buon senso, infastidendo, irritando, regredendo, sorprendendo.

Posso dirlo? È anche il cinema che amo. Ma perché lo amo, lo amiamo, questo cinema? Parlo da critico, non da artista: perché si allontana da una forma che crediamo «condivisa», che sia un canone, una storia, un abc, una sclerotizzazione, oppure soltanto la moda del momento. È un piacere perverso: una libertà che esiste nel momento in cui ricordiamo quello da cui è libera.

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In fondo ogni film, per esistere, si pensa secondo l’idea di un pubblico implicito, di un pregiudizio. E poi prova a sfidare la cultura, il bagaglio di visioni, le abitudini percettive che questo spettatore immaginario porta con sé, di fronte allo schermo: parte da quelle, le modula, le attenta, le svia, le accompagna altrove.

Questa base, questo nucleo da scolpire, è fatto da un concentrato di storia, industria, mercati, consumi culturali, anagrafica etc. Il film non è quello che vediamo sullo schermo: è il rapporto tra l’audiovisivo e lo spettatore. Scultura: le immagini e i suoni modellano, scalpellano, quelle che il pubblico porta in sala. I suoi automatismi. La sua misura. La libertà ha dei limiti precisi.

QUESTA LUNGHISSIMA premessa per arrivare alle mie conclusioni sul ruolo della critica o quantomeno delle parole per dire il cinema:

1) il compito del critico militante non è quello di giudicare. È quello di capire e poi, solamente poi, giudicare. Oggi bisogna capire come le immagini si muovono, come vengono consumate, cosa cercano negli spettatori: essere critici militanti, dunque, oggi, significa conoscere videoclip e reel di Tik Tok, meme e stories di Instagram, oltre alla storia e alle storie del cinema. Bisogna sapere di cosa sono fatte le immagini, e le immagini che lo spettatore ha dentro di sé: è questo il primo compito del critico.

2) Questo significa che un critico non deve rivendicare la propria misura, pretendere una forma, fare un bilancio del film per quello che avrebbe potuto o dovuto essere. Un critico dovrebbe chiedersi invece: cosa sta facendo questo film alla forma che io – spettatore professionista ma pur sempre spettatore – avevo in mente? Perché non mi piace, perché mi infastidisce, disgusta, o al contrario mi appaga, soddisfa, esalta? È quello il lavoro del film, che per il critico diventa un lavoro anche autoriflessivo. Sapere chi sei e cosa porti in sala è un dato importante. Non conoscere se stessi porta a pretendere che sia il film a somigliarci. I critici che mettono a norma i film, usando il misurino del proprio gusto per giudicare un’opera, cercandosi allo specchio, dicono di se stessi, e non dell’opera. Il punto di un film è far guardare diversamente: giudicarlo perché diverso è un controsenso.

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3) Non si può capire di cosa è fatta un’immagine, al cinema, se non si conosce la storia del cinema. Oggi molto (decisamente non tutto) è accessibile, tutto è privo di gerarchia: è l’ideologia piatta delle piattaforme? Un critico dovrebbe dare profondità, ripercorrendo la catena indietro (non solo intorno), provando a trovare un’origine. Solo conoscendo la storia del cinema (oltre al funzionamento delle immagini presenti) è possibile costruire scale di valore. Il che non vuol dire imporre un canone: ma fare ipotesi su come un canone possa evolversi. Fare ordine non significare normare il disordine. Altrimenti quello che resta è solo relativismo, euforia, opinione.

4) Per portare il cinema nel nuovo millennio è necessario trovare nuove parole o spiegare quelle vecchie date per scontate, non per forza arrendersi al silenzio: da insegnante, mi accorgo che termini come «sguardo» o «distanza» – per la mia generazione alla base del lessico cinematografico, come una sorta di implicito che non ci ha mai spiegato nessuno – oggi non vengono capiti. Mettiamoci alla prova. Cosa è la «distanza»? Cosa lo «sguardo»? Spiegarli aiuterebbe le nuove generazioni a capire cosa è il cinema, che non è un pensiero superficiale.

5) La critica è morta? Non credo. A parte il fatto che mai come oggi si leggono recensioni (che non necessariamente sono critica, certo) il punto mi pare la non visibilità della critica, non la sua scomparsa: sommersa dal rumore degli opinionisti, degli influencer, dei nuovi promoter del cinema, scambiata con altro. La critica c’è (in Italia, a saperla cercare, ce n’è una migliore di quella anglosassone e di quella francese), eppure non la si vede: è una questione di mancato riconoscimento. Per la confusione portata dall’accesso democratico alla (non più) professione, per cui tutti fanno i critici e quindi «chi può dire di esserlo», ma anche per il disinteresse degli addetti ai lavori: un tempo riviste con 500/1000 lettori ricevevano risposte da nomi come Pasolini, erano indicate dai cinematografari come punto di riferimento teorico, erano un polo dialettico, facevano, insieme, opinione.

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OGGI QUANTI cineasti ascoltano/leggono/conoscono la critica? Colpa della critica? Non di tutta. Anche colpa dei cineasti, che sfiduciano la critica, non pensano al cinema come arte o come teoria, e si misurano solo con la metrica del pubblico. Eppure io oggi (ma anche ieri) vedo giovani studenti affidarsi a youtuber/influencer il cui dono principale è di frequente mettere insieme tre pensieri sensati, spesso di riporto, persone appassionate e volenterose che giocano a fare i critici, che li imitano e li taroccano, e che riescono anche a fare carriera, numeri etc.

Io ho sempre creduto che si dovessero restaurare i luoghi, per fare critica. Quando ho preso la direzione di «Film Tv» era quello il punto: creare una casa per la critica, in un momento in cui erano tutti monadi, dispersi, orfani.

Ma c’è un altro punto: avere il coraggio di andare nei posti che non appartengono alla critica, trovare dei modi, nuove parole, o quel che serve. Entrare nel presente. O – ecco – tenere degnamente la propria posizione marginale. E avere il buon gusto di non lamentarsi.

L’autore /Direttore di «Film TV», i festival, la didattica

Giulio Sangiorgio (Lecco, 1984) è critico cinematografico e programmatore. Dirige il settimanale «Film Tv».  È co-direttore, con Olaf Moller, del festival I mille occhi di Trieste e neo-direttore del BA Film Festival. Si occupa della selezione del Filmmaker Festival di Milano.  È responsabile della comunicazione del Sindacato nazionale critici cinematografici italiani e membro della commissione che assegna il marchio Film della critica. Insegna all’Università IULM di Milano ed è tutor del laboratorio di sviluppo In progress per Milano Film Network.