L’ultimo Festival di Cannes ha posto la questione con evidenza mostrando come nel giudizio critico sia stato messo da parte ciò che Daniel Mendelsohn (Estasi e terrore. Dai greci a Mad Men, Einaudi) definisce «dare gli strumenti per una conoscenza» a favore di una polarizzazione del «mi piace» «non mi piace» modello social. Dove peraltro ormai prendono corpo le discussioni «critiche» sul cinema e su molto altro. E se da una parte la critica cinematografica – così come quella teatrale o musicale – sembra avere perduto questa funzione di conoscenza, dall’altra si assiste a una sua costante semplificazione a cominciare dal ritorno del cosiddetto «contenuto». Molto spesso la lettura di un film parte da qui, dal «tema», ciò di cui parla, posto al centro del discorso come se il suo valore fosse dato unicamente da questo (la storia, la sceneggiatura, la sua consequenzialità), elementi che se vengono meno producono un’afasia del linguaggio «critico» e la conseguente bocciatura del suo oggetto – il caso di Megalopolis è indicativo.

EPPURE un film è immagine, movimento, luce, tempo, spazio. Dunque? Ha ancora senso parlare di critica, e al di là degli stupori della cronaca? – nei mesi scorsi l’inglese «The «Guardian aveva affermato che la critica ha lasciato ormai il passo agli influencer, forse è pure vero ma lì si tratta di marketing e il fatto che i due piani si confondano dimostra proprio come questa superficiale polarizzazione abbia svuotato la parola critica di significato. Quale relazione è possibile allora – se lo è ancora – tra il fare critica e il cinema? A partire da qui ci piacerebbe esplorare varie direzioni, punti di vista, possibilità con una serie interventi (in progress, vorremmo che l’invito fosse accolto da tante voci) aperta dal testo di Carlo S.Hintermann che di questa riflessione è stato ispiratore.

Le domande che potrebbero sembrare specifiche, o limitate a una piccola parte di realtà, interrogano invece un sistema più ampio, che riguarda il linguaggio critico e più in generale l’intero lavoro culturale. Il fare critica è per lo più un lavoro gratuito, moltissimi siti, blog ecc non sono la fonte di reddito per chi li fa – non pagano affitti/mutuo o bollette – come se fossero un di più separato dai bisogni reali, un passatempo, un gioco. Quanto questa caratteristica condiziona il peso della critica e la sua percezione? Ci sono poi i corsi (un numero infinito, specie Summer) per aspiranti giovani critiche e critici: hanno una funzione? O partecipano anch’essi alla caduta di peso della critica stessa? Le domande sono tante, perché questa parola «malata» dello scrivere di cinema investe l’immaginario, qualcosa su cui si fonda la nostra narrazione del mondo, che ne può capovolgere i riferimenti che può smascherare, inventare, rifondare.