Si può ancora parlare di cinema? Enrico Ghezzi molti anni fa mi aveva messo in allarme ripetendo con candore che la critica non esiste. Non si trattava di una provocazione ma di una considerazione clinico-filosofica, l’analisi di quali parole avrebbero potuto essere al servizio del cinema o meglio essere cinema. In questi ultimi anni sicuramente si sono diffuse parole anti-cinema, un lessico ammalato, che si è propagato in modo inarrestabile. Rintracciare questi indici morbosi è piuttosto semplice, spesso hanno la forma di aggettivi, come nel caso di «derivativo», assegnato a ogni film in cui riverberino altri mondi-cinema, per depotenziarne la portata o ostacolarne la natura panottica. Un aggettivo anti-cinema che racchiude in sé la distanza tra il discorso sul cinema e il cinema stesso.
La traccia più interessante di questi ultimi tempi mi sembra proprio la continua rielaborazione, lo sconfinamento tra i generi, che di fatto li annulla, e in ultima istanza il rendersi autonomo del cinema proprio nutrendosi di se stesso. Questo percorso prescinde dai giudizi di merito e ancora di più dalle banali questioni di gusto, è un fatto: il cinema ha divorziato dalle parole che pretendono di descriverlo. Questa è una vera rivoluzione, una liberazione.

RECENTEMENTE Giulio Sangiorgio in un editoriale su «Film TV» parla di cinema museo, di film che «reinstallano, rivisitano, rielaborano cinema passato», osservando con questa lente un folto numero di film passati nel concorso dell’ultimo Festival di Cannes: The Shrouds di Cronenberg, Megalopolis di Coppola, L’amour ouf di Lellouche, The Substance di Fargeat, Kind of Kindness di Lanthimos, Marcello Mio di Honoré, Oh, Canada di Schrader, Caught by the Tides di Jia Zhang-ke. Un museo dinamico, ma pur sempre un luogo finito. Dove si consuma allora lo scarto, che nel nutrirsi di se stesso lascia il cinema sprofondare nell’abisso? C’è un mistero inalienabile nel cinema, una ferita da rimarginare, la giunta di montaggio, dove si forzano due immagini a coesistere, quando tra di loro non può esserci che il vuoto, lo spazio eterno, nel quale precipitare gioiosamente. In questo precipitare finalmente il cinema diventa immanente, lontano dai suoi autori, ancora di più dai suoi critici e in modo paradossale dai suoi stessi spettatori. Come un virus che sfugge da una provetta entra provocatoriamente nel mondo infettandolo, l’immagine viaggia in ogni device, oltrepassa gli schermi si moltiplica, si smarrisce. Se esiste un museo, forse allora è un museo perduto, una pletora di stanze, un dedalo il cui unico scopo è perdere finalmente l’orientamento. I grandi recettori di cinema, come Tarantino, sanno come coltivare l’immagine smarrita, quella sequenza che appartiene a film dimenticati, monadi che aspettano di reificarsi, reincarnazioni e non derivazioni, che incontrano finalmente registi medium.

Può quindi il cinema non avere più spettatori? Questa autonomia del cinema impone l’eliminazione dello spettatore, che dopo essersi trasformato in testimone, non può che diventare connivente, è esso stesso il film, non lo sta più guardando. Per questo andrebbero abolite le categorie, le catalogazioni, a favore di parole-cinema, ma una resistenza pertinace si affanna invece a uno strutturalismo che analizza, disseziona, e spesso si abbandona alla deriva contenutistica. Si tira quindi un respiro di sollievo quando un film può essere definito «perfetto», mettendo tutti d’accordo, come fosse la carezza di cui il critico ha bisogno. Anche lì però si consuma uno scarto, in fondo pure un film «perfetto» nasconde un cinema riottoso. Forse il cinema è divenuto un animale, qualcosa che esiste lì in quel momento, e si lascia osservare mentre gli umani, per legittimarne l’esistenza, cercano di antropomorfizzarlo. Invece andrebbe abbandonata ogni tentazione specista, ogni rendita di posizione: umano contro immagine. Il cinema non è più immagine ma finalmente è un corpo, fatto di infiniti misteri, è la crestomazia dei misteri, non ci appartiene più, esiste nel mondo, è esso stesso il mondo.
«Mistero» al contrario di «derivativo» è una parola cinema, o una parola mondo, perché ineluttabile, qualcosa che marca la necessità di non conoscere, in ebraico si direbbe «ad d’lo yada» fino a perdere coscienza e conoscenza, come quando si indugia nel bere a Purim, evitando che il cinema-mondo venga instupidito dall’intelligenza. Non conoscere ci aiuterebbe a capire che non esistono strutture, non esistono buchi di sceneggiatura, ogni disordine è semplicemente un ordine diverso da quello che ci saremmo aspettati. Meglio non aspettarsi più un «ordine» perché il cinema è libero e dissociato, non ci vuole più come spettatori, non gli interessano più i giudizi, ci scova quando meno ce lo aspettiamo e non ci dà più tregua. Gli autori non hanno più ragione di esistere, servirebbero solo a chi ha bisogno di costruire su di loro una professione, critici, programmatori di festival, tanto operosi quanto de-generati, fuori dal flusso immanente, dall’onda che tutto travolge, che tutto lava. Il furor recensendi si dissolve di fronte a generatori di immagini, dream machine, matrici, da cui il cinema si ri-genera all’infinito.

RI-FARE è allora infinitamente più seducente del fare, «Oops! I did it again» e mentre ce ne accorgiamo tutto ci è già sfuggito dalle mani, come è giusto che sia. Serge Daney assegnava al cinema di Ioseliani la capacità di cogliere qualcosa un attimo prima che scomparisse, e forse questo servirebbe: rassegnarsi alla sparizione, rinunciando alle parole morbose che si affannano inutilmente a normare, a favore di parole aperte, effimere, che danzino per poi scomparire, fino a non avere più parole.