Vi devo ringraziare per aver innescato un piccolo movimento collettivo di re-azione, un diverso modo di attivare la propria posizione cinematografica dinanzi all’inconsistenza attuale nella steppa di immagini.
Partirei da questo assunto: il cinema non esiste senza occhi che guardano nell’oscurità. Quando pensiamo al cinema ci riferiamo sempre al guardare in un luogo destinato. Perdura tuttavia un interrogativo: cosa significa guardare? E quando questa condizione sembra essere venuta meno, dovremmo cercare di comprendere a cosa facciamo riferimento quando diciamo «ho visto un film», giacché sempre qualcuno deve aver detto di aver visto un film per dare continuità all’espressione del cinema, altrimenti non staremmo qui a discuterne.

ALL’AMICO Carlo Hintermann, che ringrazio per lo stimolo, direi che la traiettoria affascinante da lui argutamente indicata porta con sé, però, anche una serie di rischi. Riguardo l’affermazione di Enrico Ghezzi, secondo cui non esisterebbe alcuna critica cinematografica, non dimentichiamo che in quel momento si era affermata una sostituzione del ruolo di una certa critica, in un movimento di relazione più libera con i film: la cinefilia.

La lucidità del nostro amato Ghezzi sottolineava quanto il centro gravitazionale del cinema si stesse spostando: non più una mediazione di interpretazione critica, ma solo immagini incontenibili alimentate da uno sguardo autonomo, teso a governare l’ingovernabile, con noi e al di là di noi. Questione cruciale per i nostri tempi.
Non dovremmo quindi rischiare di ripararci dietro definizioni o anti-definizioni, che sono pur sempre delimitazioni, riparative o ristorative.Oggi, nelle immagini, è sempre più assente una forma conflittuale, e non nei contenuti, ma nella propria costituzione essenziale, nella propria feritaL’immanenza a cui si fa riferimento porta con sé, nella sua accezione massima, questa nuova investitura tecnico-digitale. Un riferimento concettuale solo apparentemente liberatorio e di rottura, che rischia di tradursi, se non adeguatamente problematizzato, con la conseguente pratica degli odierni strumenti tecnici: replicazione e automatismo.

IL NUOVO paradigma concettuale ha nel suo carattere essenziale la risposta automatica, riferita solo al dispositivo tecnico, sostituendo la figura della persona, nella sua pratica, con quella di un automa immanente al suo funzionamento. E sappiamo bene che il funzionamento tecnico deve ripulirsi da ogni stortura, da ogni inciampo, da ogni conflitto.
Oggi, nelle immagini, è sempre più assente una forma conflittuale, e non nei contenuti, ma nella propria costituzione essenziale, nella propria ferita.

Tutto sembra esistere dentro l’apparato autonomo della macchina tecnologica digitale che sostituisce il luogo del cinema. Oggi si producono milioni di film, non per essere visti, non per essere attivati attraverso un lavoro di relazione visiva, ma per sostenere e mantenere l’apparato tecnico, per diffondere l’emanazione e la sua stessa estensione tecnica.
L’immagine è diventata una forma di emanazione impermeabile a cui ci si deve sottomettere.

La redazione consiglia:
Il senso del lavoro culturale, la libertà del linguaggioL’espressione museale sembra voler determinare una diversa possibilità di vivere questo distacco dalla dimensione proiettiva, per restare ancora vicini alla ferita dall’assenza di qualcosa che vada oltre. L’apparato tecnico non crede più in nulla oltre che a se stesso. L’opera cinematografica non viene attivata con il lavoro della visione ma è solo l’ennesimo riempimento di uno spazio già delineato. E senza alcuna attivazione relazionale nulla si costituisce; tutto si destituisce fuori dalla macchina tecnica.
Certo, la visione non si dà mai a partire da un io, da uno spettatore, che cerca di riscontrare e circoscrivere un significato. Non appartiene a un soggetto ma è sempre soggetta a qualcosa. In tal senso, si è pubblico che si forma, nel luogo del suo vedere, proprio mentre si viene attraversati da un’immagine già data che precede ogni apparizione di altre immagini. Per questo il cinema già si dà e non ha bisogno di nessuno spettatore. Lo spettatore arriva sempre in ritardo, ma in quel suo ritardo vi è la continuità della visione, del vedere, nel luogo proprio del suo formarsi pubblico.

L’apparato tecnico, diversamente, non ha bisogno di luoghi profondi, prende forma nella sua cornice impermeabile e giornaliera, in cui non è presente nessuna proiezione, nessuna visione. Tutto sembra rientrare nel carattere di definizione massima, di funzionalità operativa, qui, sì, un po’ come un virus. La pratica tecnico-digitale appunto non decentra lo spettatore, come avviene invece nella pratica cinematografica, ma forma, istituisce un pubblico-operatore funzionale all’apparato. Per questo anche il lavoro di visione critica o programmatrice utilizza la parola come definizione circoscrizionale e valutativa.
Così, il processo di visione viene sostituito dalle sinossi, dalle sceneggiature, da parole d’ordine che chiedono al film di limitarsi ai soli ingredienti tecnici e contenutistici. Esistono solo formule dettate dalla necessità dell’apparato.
I nostri maestri ci dicevano sempre di fare film per i cittadini e non per il pubblico, proprio per una responsabilità pubblica nella relazione condivisa con la vita.

SIAMO tutti convinti che un film altro non sia che una forma di contributo parziale al suo carattere massimo, il cinema. Ma si deve aggiungere che questo si alimenta e vive nella sua propria forma costitutiva: il luogo del cinematografo. Non si deve dimenticare che quando parliamo di cinema facciamo riferimento principalmente a un luogo. È il luogo che traccia il significato del vedere, che non è mai un’azione ma solo un atto; altrimenti potremmo dire di praticare la visione cinematografica anche durante le nostre passeggiate. Si tratta certamente di visioni stimolanti ma che privano il processo di visione di aspetti centrali. E non è colpa di nessuno se oggi sia sempre meno presente un certo carattere rituale dell’esperienza di visione, cioè l’oscurità della sala cinematografica.La pratica tecnico-digitale non decentra lo spettatore, come avviene invece in quella cinematografica, ma forma, istituisce un pubblico-operatore funzionale all’apparato Il luogo del cinema è scomparso come componente essenziale perché si è modificata la necessità dei film. Quella forma di luce scura che illumina le nostre visioni ormai è rischiarata dall’iper-definizione, dalla chiarezza chirurgica dell’apparato tecnico-digitale, che porta con sé solo comandamenti per il suo buon funzionamento automatico. Ma così, praticare la sala cinematografica o altri strumenti di visione non apporta alcuna differenza.

Anche per questo molti film oggi appaiono sempre più in forme moralizzatrici, verso direzioni di comando dove soggiace la verità del proprio tempo. Questa espressione direttiva è presente nella gran parte dei film perché non sono gli autori o i critici o i programmatori ad esprimerlo ma è l’apparato tecnico che utilizza noi per diffondersi. Anche qui, proprio come un virus. Sembra che questa forma virale delle immagini sia altro che la funzione di un apparato in incessante attività, e non un’esperienza vitale di una comunità che vuole oltrepassare le sue definizioni. Anche perché, di nostro ormai, sembra esserci solo la mancanza della presenza nelle relazioni del vivere.

La redazione consiglia:
Cinema corpo. La malattia delle paroleA NOI non resta, allora, che il compito di alimentare un canto di vita che disallinei il buon funzionamento produttivo dell’apparato. Un canto per cercare di lavorare le immagini, di produrle, per un movimento incessante di vita luminosa nella sua forma oscura. Come ormai sappiamo bene, un’immagine non è mai un oggetto, ma sempre un processo di relazione tra dei corpi estesi e privi di confine.
Qui la necessità della sentenza: «Torniamo al cinema» anche se dovesse scomparire il suo proprio luogo. (Cosa che non avverrà!)
La luce oscura è presente già nei nostri occhi, bisognerebbe solo reagire a questo accecamento da troppa chiarezza visiva.