Appiedati a Detroit
Stati Uniti Costretto ogni giorno a percorrere 21 miglia a piedi per raggiungere la sua fabbrica. La vicenda di James Robertson ha avuto alla fine un «happy ending». Quella del trasporto pubblico negli Stati Uniti no
Stati Uniti Costretto ogni giorno a percorrere 21 miglia a piedi per raggiungere la sua fabbrica. La vicenda di James Robertson ha avuto alla fine un «happy ending». Quella del trasporto pubblico negli Stati Uniti no
Un anno e mezzo fa la città di Detroit ha dichiarato fallimento, con un passivo di 18 miliardi di dollari. Al declino della storica industria automobilistica è corrisposto il declino di una città, segnata fin dagli anni trenta da lotte sindacali e tensioni razziali.
Alla decennale delocalizzazione e deindustrializzazione si sono sommati, infatti, i devastanti effetti della crisi con la disoccupazione triplicatasi nel giro di pochi anni e un terzo della popolazione che, tra il 2007 e il 2011, ha vissuto sotto la soglia della povertà. Per risanare le finanze comunali, dopo la dichiarazione di insolvenza, l’amministrazione cittadina è arrivata persino ad interrompere la fornitura di acqua a migliaia di utenti morosi: una decisione «contraria ai diritti umani», a parere della missione Onu inviata lo scorso ottobre in Michigan.
È in questo contesto che si colloca la storia di James Robertson, operaio presso la Schain Mold & Engineering.
Due litri al giorno di Mountain Dew
Quarantasei miglia separano la sua abitazione a Detroit dalla fabbrica dove lavora a Rochester Hills. Ventuno di queste, fino alla settimana scorsa, le percorreva a piedi, ogni mattina, per arrivare in tempo a lavoro.
Il suo turno inizia, infatti, alle 14 e termina alle 22, usciva da casa alle 8 per farvi ritorno alle 4 del giorno dopo. Il 56enne african american, la cui storia ha fatto il giro degli Stati Uniti grazie al «Detroit Free Press», guadagnando 10 dollari e 55 centesimi l’ora non poteva permettersi l’acquisto di un’automobile: quella che aveva, una Honda Accord, aveva smesso di funzionare nel 2005. I mezzi pubblici del resto non collegano le due città. Nonostante tutto, forte di due litri al giorno di Mountain Dew (una bevanda Pepsi, nda) e del sonno recuperato nel fine settimana, Robertson ha compiuto questo incredibile sacrificio per quasi dieci anni.
Fino a quando, cioè, un lettore del giornale, lo studente d’informatica Evan Leedy, colpito dal racconto, non ha lanciato sul web un sito di crowdfunding per aiutarlo.
Nel giro di pochi giorni sono stati raccolti più di 300 mila dollari; l’automobile, una Ford Taurus, è stata donata invece da un concessionario di Sterling Height. Il denaro è stato, quindi, destinato alla tutela della salute di James, al pagamento dell’assicurazione dell’auto e alla sua manutenzione. Alla gestione del fondo contribuirà, inoltre, un piccolo team di consulenti finanziari, messi a disposizione da Blake Pollock: un banchiere della Ubs che, circa un anno e mezzo fa, aveva dato a Robertson uno «strappo» fino a Rochester Hills e, appresa dalla stampa la vicenda, si era adoperato affinché fosse resa pubblica.
https://www.youtube.com/watch?v=cD3lzUR34nw
La storia, il cui happy ending è stato compulsivamente rilanciato dai rotocalchi americani, offre diversi spunti di riflessione. In primo luogo, ha osservato il premio Pulitzer Stephen Henderson, riflette la misura del fallimento delle politiche per il trasporto pubblico in questa area degli Stati Uniti. Secondo la legge dello Stato del Michigan ogni città ha infatti la facoltà di rinunciare al servizio di trasporto pubblico interurbano, erogato dalla Suburban Mobility Authority for Regional Transportation (Smart). Ragione per cui cinquantuno cittadine nelle contee di Wayne e di Oakland non hanno collegamenti con Detroit, rendendo di fatto non funzionale l’intero sistema di trasporto dello Stato come la storia di James Robertson dimostra.
A dispetto delle mobilitazioni promosse dalla Transportation Riders United, combattivo comitato locale, le istituzioni pretendono di fare economia eliminando un servizio essenziale per i lavoratori. Detroit, come altre città degli Stati Uniti dal secondo dopoguerra, è stata, infatti, investita dal cosiddetto «urban sprawl»: si è, cioè, sviluppata ed espansa in enormi aree insediative, molto distanti dal centro urbano storico. Un fenomeno, accentuatosi a seguito della rivolta della 12th Street del 1967, grazie al quale la popolazione della città è oggi composta per l’82,7% da neri, socialmente meno abbienti, mentre i bianchi vivono prevalentemente nelle aree suburbane.
Il 77% dei posti di lavoro, rivela uno studio della Brookings Institution del 2013, distano dalle dieci alle trentacinque miglia dal centro della città; mentre soltanto il 22% dei posti di lavoro a Detroit, secondo un precedente studio, sono raggiungibili in novanta minuti attraverso il trasporto pubblico.
I dati economici sul manifatturiero aiutano a comprendere meglio i termini di un seconda questione. Secondo le stime rese pubbliche dall’U.S. Department of Labor tra gennaio 2014 e gennaio 2015 si è realizzato un incremento di 228 mila nuovi posti di lavoro nel settore: un dato cui ha contribuito in modo decisivo la compressione salariale, favorita dall’esplosione del lavoro temporaneo che nello Stato del Michigan, tra il 2009 e il 2013, è aumentato del 66%. Una circostanza significativa se si pensa alle nove miglia che separano Detroit da Dearborn: la cittadina in cui nacque nel 1863 Henry Ford e quarant’anni dopo l’omonima casa automobilistica, il cui modo di produzione si basava su due capisaldi: la tecnologia della catena di montaggio e gli alti salari, attraverso i quali i lavoratori avrebbero potuto acquistare i beni che avevano contribuito a produrre.
Esattamente ciò che non ha consentito all’operaio James Robertson di acquistare una nuova auto.
Il rovescio della medaglia
Le dichiarazioni di Todd Wilson, il direttore dello stabilimento Schain Mold & Engineering in cui Robertson è impiegato, consentono di cogliere un terzo aspetto: il rovescio della medaglia di questa storia. «Se quest’uomo può arrivare qui, camminando per tutte queste miglia con la neve e la pioggia, ti dirò che ci sono persone che vivono a 10 minuti, a Pontiac (sobborgo di Detroit nda) che dicono di non potere arrivare».
Se un lavoratore come James Robertson, pur percependo meno del salario medio del suo settore, $10.55 a fronte di una media di $13,97 (secondo i dati del Bureau of Labor Statistics), pur non potendosi permettere l’acquisto di un auto, pur non potendo disporre di un servizio di trasporto pubblico, è disposto quotidianamente a camminare ventuno miglia e a dormire quattro ore, perché i suoi colleghi non dovrebbero fare lo stesso?
Il quadro che se ne ricava rende conto degli enormi ostacoli economici e strutturali, cui è costretto un lavoratore nero di Detroit. Una realtà concreta che la retorica interclassista – asfissiante nel celebrare l’amicizia tra il banchiere bianco e l’operaio nero – e la filantropia paternalistica, corollario del celeberrimo «darwinismo sociale» a stelle e strisce, stentano ad occultare.
Se il vangelo della ricchezza, predicato più di un secolo fa dal padrone dell’acciaio statunitense Andrew Carnegie, affermava, infatti, che i vincitori nella lotta per la sopravvivenza (i ricchi) avevano la responsabilità morale di assistere i perdenti (i poveri), a patto che ciò non si realizzasse attraverso l’intervento pubblico, «aver ottenuto che tutti parlino del sistema di autobus» è a giudizio di Robertson la parte migliore della sua storia. «Questa città ha bisogno di mezzi disponibili ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette». Un servizio pubblico, non poco negli Stati Uniti.
Altre risorse:
Detroit man who walks 21 miles to work surprised with new car
https://www.youtube.com/watch?v=NgzTcjV-CWw
Detroit Man walks 20 mile a day work commute, inspires donations
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