André Kertész, movimento, ombre, paradossi visivi
A Torino, Camera Il modernismo di André Kertész, come vide Cartier-Bresson in anticipo su tutti gli altri. Dalla nativa Ungheria, a Parigi, a New York, una mostra che nasce da una lista manoscritta...
A Torino, Camera Il modernismo di André Kertész, come vide Cartier-Bresson in anticipo su tutti gli altri. Dalla nativa Ungheria, a Parigi, a New York, una mostra che nasce da una lista manoscritta...
Ciò che disse Robert Capa sulla fotografia, «non basta avere talento, devi anche essere ungherese», può sembrare esagerato, è certo però che dalla repubblica magiara giunsero un buon numero di fotografi dalle capacità singolari. Alcuni divennero famosi fuori dei confini nazionali: oltre Capa (Endre Erno Friedmann), il fotografo della vita notturna parigina Gyula Halász, in arte Brassaï, Martin Munkácsi, Paul Almásy o László Moholy-Nagy. Altri non lasciarono mai il loro paese, come il poliedrico József Pécsi. La maggioranza di questi seguì una variante del pittorialismo (Rudolf Balogh), ma ci fu chi aderì alla fotografia sociale (Kàroly Escher) e alle tendenze moderniste.
Non è qui necessario dilungarsi sui protagonisti della fotografia ungherese tra le due guerre, ma è bene considerare l’unicità di quella comunità di fotografi girovaghi tra l’Europa e le Americhe, che segnarono la storia della fotografia del Novecento.
Tra questi c’è André Kertész (Budapest, 1894 – New York, 1985), la personalità, tra quelle prima citate, più influente e longeva con i suoi settant’anni di attività, alla quale CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia di Torino dedica un’ampia retrospettiva, fino al 4 febbraio, con opere provenienti dalla Médiathèque du patrimoine et de la photographie (MPP) di Parigi, dal 2005 custode dell’archivio del fotografo ungherese.
Curata da Walter Guadagnini e Matthieu Rivallin, l’esposizione André Kertész. L’opera 1912-1982 è ordinata cronologicamente in sei sezioni, secondo una periodizzazione dettata dai luoghi in cui è vissuto: Ungheria (1894-1925), Francia (1925-’36), Stati Uniti (1936-’62). Per ultimo, volendo seguire la biografia di Pierre Borhan (André Kertész, la biographie d’une oeuvre, Editions du Seuil, 1994), c’è da aggiungere il «periodo internazionale», che ha inizio con la riscoperta della sua opera nel 1963, alla Biennale della Fotografia di Venezia, e la conseguente fine dell’oblio succeduta all’arrivo negli Stati Uniti, nel 1985.
Ciò che rende l’allestimento sotto la Mole una mostra diversa dalle altre, di certo quelle più recenti (al Palazzo Ducale di Genova nel 2018 e al Centro Culturale di Milano nel 2019) è la lista manoscritta ritrovata da Rivallin nell’archivio della MPP delle foto esposte alla mostra veneziana, la quale è stata seguita come traccia.
La sequenza degli scatti di Kertész inizia, come lui stesso dichiarò in un’intervista alla BBC, con la descrizione del «quotidiano della vita, quello che poteva sembrare banale prima di avergli donato nuova vita, grazie a uno sguardo nuovo». Nel 1912, con i primi soldi d’impiegato, acquista una macchina fotografica, come scrive Rivallin in catalogo (Dario Cimorelli Editore), o la riceve in dono da sua madre, come riferiscono, invece, R. Gurbo e S. Morthland (2007). Per diversi anni fotografa ogni genere di soggetti: persone, familiari, amici, angoli della sua città, sé stesso in prove ginniche e in pose teatrali (Alla piscina Beicser mentre mi tuffo, 1917; Il fauno danzante, 1919).
Allo scoppio della prima guerra mondiale Kertész si arruola volontario e documenta la vita dei soldati con una macchina Ica Bebè 4,5×6, regalo del fratello Jeno, il quale continuerà a stampare le pellicole che André gli inviava anche dopo che, ferito nel 1915, fu incaricato solo di accompagnare le truppe sul fronte rumeno e russo. Con sua soddisfazione le sue foto di guerra vennero riprodotte in cartoline, e alcune pubblicate sul giornale Az Érdekes Ujság (La Lettera Interessante).
Risale al periodo bellico, durante le sue cure riabilitative in piscina, la celebre foto Uomo che nuota sott’acqua (1917): un corpo deformato dalla rifrazione della luce, che dà origine al suo interesse per i «paradossi visivi». Non lo soddisfa il suo lavoro di impiegato finanziario ed è sicuro di aver raggiunto un proprio «stile personale», dopo avere collaborato con il fotografo professionista Pál Funk (Angelo), frequentato club fotografici, ma soprattutto incontrato Elisabeth Salamon (la sposerà nel 1933), che gli ha consentito di affinare il suo gusto estetico introducendolo nei circoli artistici della capitale magiara.
Quando nel 1925 decide di lasciare l’Ungheria per Parigi Kertész si è già esercitato in un lungo tirocinio fotografico ed è pronto per presentarsi come fotogiornalista alle diverse testate della capitale francese: dalla rivista di architettura «Arts et Métiers» a «VU», il settimanale illustrato che a modello del «Berliner Illustrierte Zeitung» dà ampio spazio all’immagine fotografica e al quale collaborano fotografi quali: Brassaï, Capa, Gerda Taro, Man Ray, Berenice Abbott, Margaret Bourke-White e Henri Cartier-Bresson, il quale ultimo sosterrà: «Tutto quello che abbiamo fatto, Kertész l’ha fatto prima».
Le tre sale centrali della mostra sono dedicate al soggiorno parigino. Guadagnini pone l’accento sul modo in cui il «nuovo arrivato» riuscisse con la sua «modesta fama» ad aprirsi un varco nella comunità artistica parigina. Ne sono la prova i ritratti che lui esegue di artisti, registi, scrittori e naturalmente fotografe: Ossip Zadkine, Sergej Ejzenštejn, Edwin Rosskam (con sua moglie Peggy) e Ilka Revai (con sua figlia Eva).
Già nel 1928, sulle pagine di «Les Nouvelles Littéraires», il critico Pierre Mac Orlan lo definisce Kertész, insieme a Man Ray, un «fotografo-poeta». L’apertura si deve a due scatti alla ballerina di cabaret ungherese Magda Förstner, ritratta distesa sul divano nel tentativo di imitare la scultura di un torso maschile posto accanto a lei nello studio del comune amico artista István Beöthy. Con la Danza satirica (1926?) Kertész dimostrò quanto amasse fotografare le persone in movimento: «Significa cogliere – disse – il momento in cui qualcosa si trasforma in qualcos’altro».
A questa attrazione per i corpi, e mai per il nudo femminile soggetto simbolico o erotico, si riferisce la serie delle Distorsioni (1933): fotografie eseguite attraverso il riflesso di specchi deformanti che lo resero famoso.
Se tutto ciò, suo malgrado, determinò il suo accostamento al movimento surrealista, è tuttavia evidente come Kertész si debba situare in un’area particolare, trattandosi, come evidenzia Guadagnini, «di un fotografo realista, che si potrebbe persino definire documentario».
Alla Neues Sehen (Nuova Visione) del suo connazionale Moholy-Nagy sembra avvicinarsi quando scopre che anche le ombre sono in grado di trasfigurare la figura umana. Le ombre diventano l’elemento «costruttivo» dell’immagine. Vi appaiono quali proiezioni di passanti (Ombre, 1931), di un pittore (Il pittore d’ombra, 1926) o di se stesso, ma in Autoritratto (1927) a essere fotografata c’è solo la sua ombra.
Nel 1936 Kertész riceve un’offerta dalla statunitense Keystone Press Agency. È l’occasione per lasciare, con Elisabeth, Parigi, dove il crescente antisemitismo lo preoccupa essendo lui di religione ebraica. A New York giunge con un ricco portfolio, ma ha difficoltà a integrarsi nel sistema del fotogiornalismo statunitense. I suoi servizi per «Life» sono rifiutati perché «le sue immagini parlano troppo».
Riuscirà comunque a vivere del suo lavoro di freelance, elaborando in solitudine i temi dell’estetica modernista assorbiti a Parigi e spingendosi oltre, negli anni ottanta, con l’uso della polaroid per ritrarre oggetti in vetro alterati da riflessi e trasparenze: colorati e poetici still life che concludono la sua appassionata vita di fotografo.
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