In risposta alle rivolte razziali di uomini bianchi nelle strade di diverse città del Regno Unito, si è fatto il solito ricorso alla conservazione di una società «di legge e ordine». Naturalmente, le radici della questione – il razzismo e l’etnonazionalismo bianco – sono molto più profonde. E toccano le questioni della povertà, del degrado industriale e urbano e della globalizzazione della produzione e della finanza che hanno portato a scartare settori della popolazione come “rifiuti”. Questi sono i risultati del disfacimento del patto post-1945 tra capitale e socialdemocrazia e del programma di responsabilità politica per il benessere sociale.

In un mondo in cui tutti sono stati educati a essere individualmente responsabili per sé stessi, dalla salute all’istruzione, la precedente rete sociale si è disfatta. Sostenuta in tutto lo spettro politico istituzionale sia dai conservatori che dai laburisti a partire dagli anni Ottanta, l’economia neoliberale, che consiste nello spogliare i beni pubblici per ottenere profitti privati, è diventata un vangelo. Così come Margaret Thatcher, anche il nuovo Labour di Tony Blair era entusiasta di installare questo ordine politico ed economico. Margaret considerava Tony il suo miglior allievo.

La redazione consiglia:
Gb, il pugno di ferro di Starmer contro i riot anti-migranti

NEGLI ANNI SETTANTA, sotto la signora Thatcher, i giovani neri erano stati pubblicamente identificati dalla stampa e dai politici di destra come la causa del declino economico della Gran Bretagna. L’immigrato (anche se la gioventù nera era in gran parte di origine britannica) era il capro espiatorio, il totem per “sorvegliare la crisi”, per citare il titolo di un noto studio collettivo dell’epoca coordinato dall’intellettuale giamaicano e fondatore degli studi culturali, Stuart Hall. La razza era la lente attraverso la quale leggere la minaccia alla britishness e a un mondo bianco e parrocchiale apparentemente assediato dagli stranieri e dai loro modi poco inglesi (tutto quel curry, reggae e ganja). Suona familiare. E, naturalmente, uno degli affluenti di questa ideologia populista ci porta sulla strada della Brexit.

Ma la storia, come sempre, è più complessa e attinge a strutture e correnti più profonde. Ad accompagnare la creolizzazione in mostra negli skinhead rasati che ballavano il reggae mangiando cibo asiatico e picchiando i pakistani, c’è stata la seduzione dell’ordine politico da parte della “riforma” economica neoliberale che ha stabilito le condizioni per cui i ricchi sarebbero diventati più ricchi, la classe media sarebbe stata schiacciata e i poveri scartati. Questa era la “Cool Britannia” nel suo superficiale multiculturalismo e nella violenta ristrutturazione di una società post-industriale.

TUTTO È DIVENTATO un’opportunità per fare soldi. L’industria è stata denazionalizzata. L’energia, le ferrovie e l’acqua sono state privatizzate. Se questo significava aumentare gli sprechi e l’inefficienza, allora si poteva ricavare denaro dalla loro riparazione e manutenzione, garantendo al contempo dividendi crescenti per gli azionisti. È stata installata un’ideologia quasi punk: Cash from chaos.

Il servizio ferroviario è contemporaneamente il più costoso e il più lento d’Europa. I fiumi e i mari della Gran Bretagna sono inondati di acque reflue non trattate. Le bollette dell’energia sono salite alle stelle e la povertà è pubblicamente evidente nelle migliaia di banche alimentari sparse per il paese, suggerendo una società sull’orlo della disgregazione sociale. Ma, come disse notoriamente la signora Thatcher, la società non esiste. È solo colpa tua se sei povero, disoccupato e senza sostentamento o aiuto.

L’INSTALLAZIONE dell’individuo egoista come epitome del soggetto politico moderno non è certo un’esclusiva britannica. È maturata nel corso di molti decenni nel mondo anglofono e oggi è diventato un mantra globale. È vero, è stato in gran parte grazie ai britannici che è entrato nel lessico politico dell’Ue. Ma poi se ne sono andati senza assumersi la responsabilità. Proprio come la loro precedente politica in Medio Oriente. Ciò che è specifico e caratterizza la scena britannica, che accompagna e alimenta il razzismo rabbioso a cui assistiamo oggi, è una democrazia disfunzionale che nasconde una crisi politica più profonda che ha poco a che fare con gli immigrati (la maggior parte dei quali sono cittadini britannici di nascita) o con la religione, e molto a che fare con l’incapacità politica della classe politica privilegiata di proporre alternative distintive.

Appesantito da una monarchia ereditaria, da una Camera dei Lord non eletta e da una Camera dei Comuni (basta ascoltare il linguaggio: il Re, i Lord, i Comuni, come se fossimo ancora in uno stato medievale) eletta con un sistema non rappresentativo, significa che tutti i governi del Regno Unito sono governi di minoranza in termini di voto popolare. L’estrema destra Reform Uk, con oltre il 14% dei voti alle recenti elezioni, avrebbe ottenuto quasi 100 deputati in un sistema di voto proporzionale e non gli attuali 5, come ha sottolineato Leonardo Clausi qualche giorno fa su questo giornale. Meno male, verrebbe da dire. Ma è solo un ulteriore occultamento del malessere strutturale.

QUEI CORPI BIANCHI arrabbiati per le strade, che brandiscono fuoco e Union Jack (meglio la bandiera inglese di San Giorgio: di questi tempi, la Union Jack è troppo inclusiva), annunciando le soluzioni populiste dell’etnonazionalismo, non sono stati prodotti dai migranti (o dagli “stranieri” europei) ma dallo stesso Stato britannico. Quando si svuota la politica e si toglie la sostanza, questa viene rapidamente riempita dal fascismo populista. Incoraggiata dai media e reclutata dall’opportunismo politico, la politica populista ha rotto il guinzaglio. Sulle rovine delle illusioni imperiali ancora evocate dalla sua classe politica, il dibattito è sceso in strada. Non incontrerete Boris Johnson o Keir Starmer lì, ma da dietro le tende delle loro case multimilionarie, sbirceranno la rabbia contro la luce sbiadita dello spettacolo che hanno sceneggiato e installato.