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Amos Gitai, ripararsi dalla guerra

Amos Gitai, ripararsi dalla guerraAmos Gitai © Laura Stevens

Intervista Alla Berlinale il regista israeliano presenta «Shikun», e quella oscura tensione prima del 7 ottobre

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 24 febbraio 2024

Il cinema di Amos Gitai è arte, architettura, teatro, musica, cronaca, mappa, scrittura, ricerca, gesto fisico, slancio politico, spirito critico; lavora sulla forma come pochi, a sondare la sostanza fragile di cui è impressa la realtà – quella che accade davanti ai nostri occhi – a cui pure si dà un nome tanto rigido. Gitai gioca, serissimamente. Colpisce, provoca duramente lo sguardo, anche coi volteggi dei suoi incredibili piani sequenza, o con lo spiazzamento costante dello spazio visivo che ogni volta mette in campo, a partire, in Shikun, dal volto in primo piano di Irène Jacob che avanza nella catastrofe, lungo il corridoio apparentemente infinito di una casa popolare, di un luogo comune in cui cercano riparo una schiera di rifugiati di varia provenienza, ognuno diversamente in fuga dai «rinoceronti» (presi in prestito da Ionesco), simbolo invisibile del potere cieco, del conformismo, del dominio attraverso la paura.

Come sempre Gitai non cerca risposte consolanti, ma pone domande scomode, anteponendo al giudizio una volontà di ascolto della dimensione tragica degli eventi, una necessità di comprensione: in un dialogo molto duro tra una ragazza e un uomo anziano, preso da un articolo di Amira Hass, alle domande «come avete potuto fare tutto questo?», «quando potremo smettere di vergognarci per quanto fatto da voi?» l’anziano ex soldato risponde «Io ho solo eseguito gli ordini» (ed è difficile non pensare alla risposta che davano al processo di Norimberga i gerarchi tedeschi, pur sapendo che è l’obbedienza che ogni militare deve al proprio regime).

Shikun è un film sintetico, che assume su di sé l’incoerenza della realtà che gli sta attorno, proprio nella forma, composita, dinamica, che di volta in volta procede per accumulo, giustapposizione. Una sintesi dolorosa che parla molto chiaramente, senza farlo esplicitamente, di quanto sta succedendo in questi ultimi mesi (in questi ultimi anni) in quella terra, in una cultura devastata dal conflitto.

Come ti senti dopo quanto avvenuto il 7 ottobre?
Questo conflitto è una tragedia. Una tragedia enorme. La ferocia delle azioni di Hamas, la distruzione di kibbutz, l’assassinio di civili, l’uccisione di giovani che ballavano a un concerto, gli atti di barbarie e lo stupro di donne sono atti atroci. Non sono solo anti-israeliani, sono anche anti-palestinesi, perché distruggono l’opzione del dialogo tra i due popoli. L’unica prospettiva possibile.

Ascolto e accolgo i discorsi di coloro che mettono tutto insieme, facendo confusione, in questa tragedia… Ma anche una resistenza nazionale non giustifica questo tipo di barbarie e di violenza. Bruciare vive le persone, uccidere bambini davanti ai loro genitori… Niente giustifica tutto questo. Non fa altro che ritardare l’accordo tra il popolo israeliano e quello palestinese, perché è chiaro che bisogna trovare un modus vivendi praticabile tra i due popoli. Non c’è altra opzione.
L’attuale circolo vizioso fa venire voglia di piangere. Il governo Netanyahu è composto da fondamentalisti, membri dell’estrema destra, razzisti, che compiono provocazioni a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi. Per mesi, prima del 7 ottobre, centinaia di migliaia di israeliani hanno manifestato ogni settimana contro questo governo.

La sensazione di oggi è simile a quella di 50 anni fa. Purtroppo la storia si ripete. Ma il ciclo attuale è peggiore di quello vissuto dalla mia generazione. Oggi si mette in atto un terribile rituale, attraverso i bombardamenti, lo spreco di vite umane e di tutte le risorse di questa regione per il conflitto militare, ancora e ancora. E l’immensa tragedia per i civili palestinesi di Gaza, dopo che l’intero establishment militare e politico è stato umiliato dall’attacco a sorpresa di Hamas. L’attuale governo israeliano pensa che il conflitto possa essere risolto con un «rapporto di forza». Ma non ci sarà mai una soluzione permanente senza un dialogo profondo che tenga conto delle sofferenze di entrambe le parti.

Sono tempi molto bui. Nessuno sa come andrà a finire. Ma credo che dobbiamo conservare la speranza, l’alternativa sarebbe il nichilismo, la distruzione, la morte. Dobbiamo continuare a cercare di tracciare un percorso di speranza.

Il tuo ultimo film, «Shikun», sembra parlare in modo molto evidente di quanto sta succedendo in questi giorni, pur essendo stato girato prima. Puoi dirci qualcosa di più al riguardo?
Durante la guerra dello Yom Kippur, nel 1973, facevo parte di una squadra di soccorso. Per noi il nemico era la morte: dovevamo salvare le persone dalla morte. Mentre il nostro elicottero sorvolava il territorio siriano, vedevo villaggi, jeep e basi ed è in quel momento che un missile ci ha colpito e il nostro elicottero si è schiantato. Da soccorritori siamo diventati vittime. Mi ci sono voluti ventisette anni per riuscire a fare un film di finzione su questa esperienza (Kippur).
Sono consapevole di essere solo un individuo in questo grande meccanismo, forse un testimone, quasi nel senso hitchcockiano del termine: nel senso di testimone di un crimine. Non parlerei di missione, ma c’è qualcosa che devo tradurre attraverso il mio sguardo. Di recente ho riletto uno scambio epistolare tra Albert Einstein e Sigmund Freud sul tema «perché la guerra?». Shikun pone questa domanda nel contesto attuale.

Da «Shikun» di Amos Gitai

Di fronte all’abisso che oggi separa Gaza e Israele, cosa può fare (ancora) il cinema?
L’arte può non essere il modo più efficace per cambiare la realtà, ma è un modo per influenzare il modo in cui le persone pensano alla guerra e ai conflitti. Molto spesso cito Picasso a proposito del suo capolavoro Guernica. E credo, con la dovuta modestia, che la nostra situazione sia simile. Lui fu sconvolto dal bombardamento della Luftwaffe sul villaggio basco di Guernica nel 1937. Il suo mezzo è la pittura, quindi ha fatto un quadro, così sarà ricordato quello che è accaduto. È stato essenzialmente un gesto civico di Picasso, quello di trasporre il fatto nel suo mezzo. Alla fine, comunque, Picasso non ha vinto. Franco e la sua dittatura, che hanno convinto la Germania nazista a bombardare Guernica, hanno vinto. Per molti anni, la repubblica spagnola di Picasso ha perso. Quindi l’arte non può cambiare istantaneamente la realtà. Ma Picasso ha vinto nel senso che Guernica è incisa nella memoria. E credo che la nostra missione di artisti sia quella di incidere la memoria.

Dico spesso che faccio film come cittadino, come testimone della storia del mio Paese, un testimone coinvolto in ciò che accade, come in House (1980, 1998, 2005), Kippur (2000) o The Last Day of Yitzhak Rabin (2015), sull’assassinio del primo ministro da parte di uno studente ebreo di estrema destra nel 1995. Quando ho fatto questo film, non è stato solo per ammirazione nei confronti di un leader politico – non sono persone che ammiro di solito, sia che io sia favorevole o contrario alle loro idee – ma per rispetto della sua sincerità, che è rara in politica. Sarebbe potuto essere un generale coperto di vittorie, era pronto ad andare controcorrente e a cercare soluzioni, e in questo senso era sia un realista che un visionario. Trent’anni fa, voleva tracciare una rotta, proporre un’alternativa valida in questo complicatissimo Medio Oriente. E credeva che dire la verità fosse la base per andare avanti. Questo sforzo è stato decapitato dal suo assassinio.

Questo solleva un’altra domanda: Cosa possiamo fare? Noi scrittori, artisti visivi, pittori, teatranti, cineasti – quello che facciamo è totalmente inutile? Perché è molto probabile che non saremo in grado di affrontare poteri così feroci. Potenze feroci. È possibile che perderemo? Sì, è possibile. Purtroppo è anche probabile. Ma questo non significa molto in questo momento.

In quale momento la commedia di Ionesco «I rinoceronti» è emersa come una metafora lampante per la situazione in Israele?
Il film è nato in relazione a quello che era il contesto in Israele prima del 7 ottobre. Eravamo nel bel mezzo di un enorme movimento di protesta contro il tentativo di Netanyahu e del suo governo di estrema destra di riformare il sistema giuridico, con grandi manifestazioni che hanno riunito gruppi femministi, soldati, accademici, economisti, persone che si battono per una coesistenza pacifica tra palestinesi e israeliani, e un’ampia parte della società civile. Un movimento che aveva anche il senso di una reazione all’avanzare di una forma di conformismo, alla scomparsa del pensiero critico, nella società israeliana. È in questo contesto che ho riletto la pièce Rhinoceros di Ionesco, scritta alla fine degli anni Cinquanta, come fiaba antitotalitaria, e che mi è sembrata riecheggiare ciò che stavamo vivendo. Ho visto in essa la possibilità di ispirare un film sul presente che stavamo vivendo.

All’epoca stavo provando a Tel Aviv la versione teatrale di House, opera ispirata al mio film del 1980. C’era tutto il cast, tra cui Irène Jacob e l’attrice palestinese Bahira Ablassi. Oltre a lavorare sulla pièce, abbiamo intrapreso collettivamente questo progetto, che ho scritto abbastanza velocemente. Ho chiamato il direttore della fotografia Eric Gautier, con cui ho lavorato in quattro dei miei film precedenti negli ultimi dodici anni, ed è arrivato subito. Siamo riusciti a mettere insieme le condizioni materiali e a girare senza ritardi, grazie anche alla complicità dei produttori, dei tecnici e degli artisti con cui ho questo lungo rapporto di collaborazione e amicizia.

Quello che colpisce di «Shikun» è la forma del film, che sembra svolgersi in un costante «in-between»: tra interno ed esterno, tra linguaggi diversi, tra il reale e l’assurdo, tra la costruzione incompiuta e la rovina. Avete girato il film prima del 7 ottobre, eppure la forma «aperta» del film dice precisamente qualcosa di drastico rispetto agli eventi attuali…
Il film parla del caos del mondo, del caos della guerra, della disuguaglianza economica e dell’ingiustizia. La maggior parte dei film tende a indorare la pillola di questo caos, mettendo insieme spiegazioni, che rassicurano il pubblico. Ma a mio avviso questa è un’illusione, una disonestà. La realtà è il risultato di forze eterogenee, eventi casuali, interferenze illogiche. E in mezzo a tutto questo c’è una forza attiva, che è la paura. La paura non è un dato di fatto, è costruita, è fabbricata, e leader come Trump, Netanyahu, Orban, Putin, ecc. sono ingegneri della paura, e ovviamente lo è anche Hamas. Essi prosperano sul sentimento di paura che producono e mantengono. Questo è quello che metaforicamente rappresentano i rinoceronti, ed è quello contro cui bisogna resistere.

I miei film sono spesso giustapposizioni di biografie, con ricordi del passato, relazioni sentimentali, dilemmi esistenziali, fratture di ogni tipo. Attraverso questa frammentazione, i personaggi cercano di costruire se stessi e di essere coerenti in un contesto che è incoerente.

In ebraico, «Shikun» significa «case popolari»; la metafora dell’edificio ricorda uno dei tuoi film precedenti, «House» (ma anche uno dei tuoi primi documentari realizzati per la TV). Ancora una volta, affronti i temi dell’esilio e dell’appartenenza attraverso l’abitazione…

C’è stato un dibattito sul titolo, tra due opzioni: la seconda era It’s Not Over Yet, basata sulla canzone del film. I miei amici di Tel Aviv preferiscono il secondo titolo, che sarà anche il titolo del film in Israele, ma io preferisco Shikun, che in ebraico indica un edificio, un luogo, in cui vivere. La parola deriva da un verbo che significa «riparare», «dare riparo». E il film dà riparo alle persone che, per vari motivi, hanno bisogno di un rifugio dalla minaccia dei rinoceronti. Mi piace il suono della parola. C’è qualcosa di astratto che mi piace, ed è nello spirito del progetto.
Questo edificio, questo shikun in cui abbiamo girato, è una costruzione ben nota, ritenuta l’edificio più lungo del Medio Oriente coi suoi oltre 250 metri. Ed è davvero uno shikun, un edificio di edilizia popolare. Si trova nella città di Beer-Sheva al centro del deserto del Neguev, nel sud di Israele. L’edificio stesso è un gesto architettonico potente, nello spirito di Le Corbusier, una sorta di colpo di forza, di affermazione in mezzo al deserto. La sua organizzazione spaziale, le prospettive, gli angoli, i materiali da costruzione mi hanno aiutato a far vivere in modo contiguo questi diversi personaggi e queste diverse attività, che possono essere in conflitto o semplicemente ignorarsi, senza dover creare sequenze artificiali, delle serie di cause ed effetti come troppi film si costringono a fare. Ogni volta si tratta di esplorare un microcosmo con l’ambizione che rifletta una verità più generale. Allo stesso modo in cui lo studio di una cellula fornirebbe una rappresentazione e delle informazioni su un intero corpo vivente.

I diversi accenti che sentiamo in «Shikun» ci dicono della portata dell’immigrazione che arriva in Israele: sentiamo parlare persone provenienti dalla Bielorussia, dall’India e dall’Ucraina. Eppure, verso la fine, è la lingua araba a far sentire la sua presenza, attraverso una poesia di Mahmoud Darwish…
La maggior parte delle società in cui viviamo è composta da uomini e donne che sono migrati da un luogo all’altro. Israele è uno dei prodotti di questi esuli, con persone provenienti dall’Europa centrale e orientale, dal Nord Africa e dall’Etiopia, per non parlare dei palestinesi che sono stati esiliati dagli israeliani. La realtà, comunque la si guardi, non è coerente – architettonicamente, socialmente, economicamente o culturalmente. Non offre nemmeno l’illusione dell’unità: non è più la realtà lontana di un passato unificato dalla tradizione, in cui l’individuo era parte di una comunità, di una successione di generazioni viventi in un continuum l’una dopo l’altra – è una realtà sbriciolata, totalmente frammentata. L’esperienza di vita in questa realtà spezzata è quella dell’estraneo, della coincidenza, dell’alienazione e dell’incontro casuale. L’esperienza offerta dalla cultura moderna è quella della giustapposizione – una sorta di vicinato discontinuo di fette di realtà, una prossimità che mette persone l’una accanto all’altra.

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