La legge sull’amnistia del governo Sánchez non passa. Con un colpo di scena finale il partito indipendentista di Carles Puigdemont, Junts per Catalunya, ha rimandato in commissione il testo che doveva essere approvato ieri dal Congresso dei deputati.

Dopo settimane di faticosissime trattative, il partito socialista era riuscito a trovare la quadratura con i partiti indipendentisti. Esquerra Republicana da tempo era già soddisfatta del risultato ottenuto, ma Junts continuava a ogni giro a alzare la posta, per allargare sempre di più le maglie di chi dovrebbe beneficiare degli effetti della legge. Il timore del partito è che il suo numero uno, l’ex president catalano in esilio in Belgio (dove ora è europarlamentare), rimanga fuori e quindi non possa rimettere piede in Spagna. E l’immagine di un Puigdemont che torna a testa alta a Barcellona dopo anni di esilio è contemporaneamente bramata dai suoi e temuta dalla destra.

I TIMORI di Junts sono ben giustificati: in teoria, la cancellazione dei reati originariamente previsti da questa legge azzererebbe sia quelli commessi dai già condannati (come l’ex leader di Esquerra Republicana, Oriol Junqueras, indultato sempre dal governo Sánchez due anni fa, in un primo passo di normalizzazione dei rapporti politici con la Catalogna), sia quelli commessi da altre persone con ruoli analoghi (come lo stesso Puigdemont), sia quelli commessi da chi negli anni ha manifestato contro queste condanne (sono ancora aperti decine di procedimenti giudiziari per reati minori legati alle proteste), che infine quelli commessi dalle forze dell’ordine contro i manifestanti. Ma il problema è che c’è un settore della magistratura che ormai senza riparo sta giocando direttamente una partita contro il governo, contro la maggioranza parlamentare e contro Puigdemont.

Proprio lunedì, subito dopo aver negoziato l’ultimo ritocco alla legge che era servito a parare un precedente passo della magistratura, un giudice dell’Audiencia nacional (con competenza sui delitti più gravi) a Madrid decideva di indagare l’ex presidente catalano per il sospetto di essere un terrorista a capo dell’organizzazione non già di una serie di manifestazioni (cosa che peraltro ancora non è stata dimostrata), ma di reati gravi. E contemporaneamente un altro giudice a Barcellona decideva di riportare in vita dopo 4 anni un’inchiesta per scoprire se persone vicine a Puigdemont si erano messe in contatto con il governo russo non per valutare eventuali appoggi internazionali a una futuribile Catalogna indipendente ma addirittura per sovvertire lo stato: il reato è «tradimento», che nella legge dell’amnistia, guarda caso, non è previsto.

IN QUESTO SCENARIO preoccupante per la salute democratica del paese, il dibattito non è più se l’amnistia sia costituzionale o meno, o se sia etico o meno mettere un limite alla gravità dei reati inclusi nel provvedimento, ma se sia possibile interrompere un dibattito politico ormai tossico.

I numeri parlamentari del Psoe sono risicatissimi e ogni votazione è un calvario. Quella di ieri è finita 171 contro 179. Esquerra Republicana e gli altri soci del governo hanno rinfacciato a Junts il cambio di posizione. «Non bisogna fare la legge pensando ai giudici che commettono abuso d’ufficio, ma pensando alla sua solidità giuridica», ha detto la portavoce di Erc Pilar Vallugera.
Ora ci saranno tra 15 e 30 giorni per riaprire il negoziato e perché Junts convinca Psoe e gli altri partiti ad accettare gli emendamenti che finora sono stati respinti.