Comincia nell’aprile del 1621 con la caduta di una lampada a Selamon, nelle isole Banda, l’ultimo libro di Amitav Gosh dedicato alla parabola di una spezia esotica. La maledizione della noce moscata, uscito per Neri Pozza alla fine dell’anno scorso, ricorda come quell’ormai rinomata specie crescesse, col chiodo di garofano, solo in quel piccolissimo pugno di isole nell’estremo oriente dell’arcipelago indonesiano.

Doveva diventare, come per i tulipani, la maggior occasione per far soldi che mai si fosse presentata ai Paesi Bassi che ne avevano affidato lo sfruttamento alla Verenigde Oostindische Compagnie (Voc), la compagnia commerciale più potente del pianeta assieme alla rivale inglese East India Company (Eic). La Voc (1602) e la Eic (1600) governarono i destini commerciali del mondo per consegnare poi alle rispettive corone i territori che oggi conosciamo come India e Indonesia. Ma prima le sfruttarono fino al midollo: saccheggiando, defraudando, punendo e macchiandosi di orribili stragi.

Quella del 1621 nella Banda cominciò con la caduta di una lampada, una sorta di messaggio in codice, così credettero gli olandesi, che avrebbe dato la stura alla ribellione dei locali contro la Compagnia che, come la gemella inglese, aveva un esercito, cannoni e modi spicci per liberarsi degli oppositori. Deportandoli quando andava bene. Trucidandoli come avvenne alle Banda. Del resto, il gran Consiglio olandese in capo alla spedizione, ricorda Gosh, era stato chiaro: «distruggere le case che restano, allontanare gli abitanti dalla loro terra, catturarli e fare ciò che meglio crediamo di loro».

All’origine dell’espansione coloniale nel mondo c’era stata una bolla pontificia poi suggellata dal Trattato di Todesillas nel 1494 che stabiliva un duopolio esclusivo tra Spagna e Portogallo: a Ovest del meridiano 46°37’O, tutte le terre sarebbero appartenute a Lisbona mentre quelle a Est venivano attribuite agli spagnoli. Le Molucche, le isole delle spezie, e in particolare le Banda, erano oggetto di contenzioso. A risolverlo fu di fatto la flotta olandese che, prima degli inglesi, ne prese possesso così come di altre roccaforti portoghesi nell’arcipelago dove la Voc aveva fondato a Batavia (Giava) la sua capitale. Ma come era stato possibile che due alberi dai frutti profumati potessero cambiare i destini del mondo, le alleanze, il corso dell’economia globale?

A Ovest delle Banda, abbraccia il mare la capitale delle isole Sulawesi (un tempo Celebes), il porto di Makassar, un nome suggestivo quanto i racconti salgariani sui «pirati malesi». Pochi chilometri a Est si trova la località di Tana Beru, un luogo dove da millenni (si, millenni) si fabbricano barche in legno torcendo e assemblando le robuste essenze della foresta pluviale. Osservando l’orizzonte da qui, dove ancora oggi si fabbricano scafi con la sola scienza dei mastri d’ascia, si capisce come il commercio tra le isole e verso l’India o la Cina fosse possibile ben prima che i velieri fabbricati in Europa solcassero questi mari imponendo un rigido monopolio a colpi di cannone. Prima di allora il commercio interasiatico non era certo esente da guerre e vassallaggi, ma l’espansione dell’islam dal XV secolo in Indonesia aveva rafforzato i legami col mondo indiano/persiano e garantito una forma di libero commercio, cui potevano accedere tutti, nobili e mercanti. Prima che i teorici del libero commercio, patrimonio che l’Europa rivendica, imponessero i monopoli che dovevano impoverire queste terre per far ricche quelle del Vecchio Mondo. La noce moscata era uno dei perni del sistema.

Per anni si è pensato che il commercio delle spezie servisse agli europei per conservare i cibi, per la gastronomia e qualche cura medica ma soprattutto per i profumi che potevano occultare l’olezzo delle «comode» o degli stambugi dove nei raffinati palazzi seicenteschi si ammonticchiavano gli escrementi. Benché gli usi medici o di cucina avessero una loro fortuna, la noce moscata o i chiodi erano in realtà ben altro, visto che a conservare i cibi in Europa bastavano il sale, l’affumicatura o le «ghiacciaie» ricavate sottoterra. Gosh spiega bene che «il costo delle spezie era così astronomico che il loro valore non poteva essere attribuito solo alla loro utilità. Si trattava in realtà di feticci, forme primordiali di merce; erano apprezzate in quanto simboli invidiabili di lusso e ricchezza… esemplificazione dell’idea di Adam Smith secondo cui la ricchezza è una cosa che si desidera non per le soddisfazioni materiali che procura ma perché desiderata da altri». Un’epoca in cui dunque l’apparire – al solito – valeva più dell’essere.

Portarsi il libro di Gosh in Indonesia sembrava dunque la lettura ideale per assaporare quella via delle spezie che per secoli ha fatto navigare vascelli, uccidere uomini e donne, immettere nei sempre più ricchi mercati europei il frutto esotico di una rapina iniziata con le scoperte di Colombo nel 1492. Gosh però si serve della noce moscata per parlar d’altro. E tracciare una serie di parabole (il sottotitolo recita appunto «Parabole per un pianeta in crisi») dove una serrata critica al modo di produzione capitalistico si fonda con la madre di tutte le accumulazioni primitive: lo sfruttamento coloniale, nei suoi diversi stadi, di uomini e territori. Dove la terra è solo una risorsa da saccheggiare e i suoi abitanti originari degli schiavi da mettere in catene o, più tardi, contadini costretti a coltivare indaco e caucciù, noce moscata e pepe, nelle piantagioni dirette dagli orang belanda – gli olandesi – come ancora qualcuno chiama gli stranieri che fan visita all’arcipelago.

La chiave letteraria, partita come in un romanzo dalla caduta della lampada e nello stile in cui Gosh ci aveva abituati con la trilogia sull’oppio (tre volumi magistrali dove il romanzo incrocia la storia sciagurata delle Guerre dell’oppio in Cina) lascia il posto al saggista. Il racconto però, dove anche nel caso delle Banda Gosh si limita alla ricostruzione storica senza creare personaggi immaginari, ne soffre. O meglio, se il lettore si è lasciato ingannare dal titolo, si trova a voler leggere un romanzo storico per approdare a un saggio dove si parla più di nativi americani che non di bandanesi. Nulla toglie a un ottimo saggio zeppo di spunti, ma non vale la pena di andare fino a Makassar per leggerlo.