Amira è una ragazzina palestinese, il padre è un eroe della resistenza contro gli israeliani, è in carcere a vita e lei è cresciuta nella sua mitologia celebrata con più forza di quegli incontri tra le sbarre, pieni di amore e di tenerezza. Non è però un film di eroi Amira (negli Orizzonti veneziani due anni fa), che della sua protagonista (Tara Abboud) porta il nome nel titolo, e nemmeno il racconto di un’ adolescenza nell’occupazione israeliana. Piuttosto il film di Mohamed Diab, regista egiziano con studio a New York – suo Cairo 678 e poi la regia della miniserie Marvel Moon Knight – è un film di sperma e di mascolinità offesa, di patriarcato e di identità rivendicata.
Chi è Amira dunque oltre che l’adolescente dolce e appassionata di fotografia? La figlia di un eroe, nata sfidando la detenzione come pare accada davvero con lo sperma del padre portato fuori clandestinamente dalla prigione. Solo che quando la coppia decide di avere un altro figlio, utilizzando lo stesso metodo, la cosa non funziona e salta fuori che l’uomo è sterile. Tragedia. E scandalo. A essere messa sotto processo per prima è la moglie, da tutti compresa la figlia che l’accusa e le chiede di conoscere il padre «vero»: ha tradito il marito, ha avuto una relazione con un altro. Scatta la caccia al colpevole mentre la donna viene emarginata. L’esame del dna però la scagiona: non è chi si sospetta ma qualcun altro, qualcuno che ha scambiato lo sperma originario in carcere e solo un israeliano poteva farlo, il poliziotto, la guardia, che lo ha fatto per sfregio, per vendetta, per scherno, per affermare anche lì l’occupazione fisica, dei corpi, della vita di ogni palestinese. L’onta si fa guerra, necessità di essere combattuta, e quella ragazzina fino allora amata, parte della famiglia, cresciuta con affetto diviene una nemica. Come se fosse responsabile lei, come se avesse compiuto chissà quale gesto, il solo fatto però di essere «geneticamente» nemica la rende nemica tout court, ne fa un target da eliminare, su cui esercitare vendetta.

 

Lo schema narrativo di Diab mette al centro una questione interessante: chi è il nemico? Cosa lo definisce tale? Può qualcuno che ami divenire un nemico solo per i suoi geni – di cui peraltro è inconsapevole? Riguardando le origini, la nascita, il sangue, è inevitabile che questo interroghi il patriarcato che esercita il suo controllo sociale, e le donne sono qui le prime a essere colpite di questa cieca vendetta famigliare la quale, ovviamente fa del patriarcato la regola del «clan».

C’È PERÒ dell’altro perché non si può ignorare la realtà che accoglie la storia, quel contesto geopolitico di occupazione che esaspera ogni gesto. Il fatto è che per sviluppare il suo punto di partenza Diab intrappola personaggi e storia nelle tappe forzate di una sceneggiatura (di cui è autore) che lascia poco spazio alle ambiguità. «Amira rappresenta un’esplorazione microcosmica della divisione e della xenofobia che regnano nel mondo odierno. Nell’atto di dipanare l’identità della nostra eroina, il film solleva la questione se l’odio nasca spontaneo o venga coltivato» scriveva il regista nelle «note di intenzione» al film per il catalogo di Venezia. Giusto. Ma appunto il fatto di essere nella Palestina occupata e in una famiglia così colpita sposta la questione. Quindi? Tra sfumature azzurre, violenza biblica e telenovela Diab sembra più preoccupato di chiudere la sua scrittura in un procedimento lineare a effetto che di lavorare sull’equilibrio (forse impossibile) che il suo assunto solleva. La stessa Amira, il cui percorso l’attrice sorregge con coraggio è quasi lasciata sullo sfondo, come se i suoi stati d’animo servissero sempre a altro. E il paradosso identitario, che in questa vicenda era la nota più forte, finisce per inchiodare anche lei, figura senza identità che ne cerca disperatamente una (sempre nel patriarcato) a cui non si concede la minima via di fuga.