Nell’ultima data italiana del nuovo tour europeo Amaro Freitas, pianista brasiliano, anzi, pernambucano di Recife come Nana Vasconcelos, è atterrato la scorsa settimana a Roma, all’Officina delle arti Pier Paolo Pasolini, che non è nuova a «ospitate» – lusofoniche e non solo – di grande livello e non scontate. Freitas vi ha presentato, in solo, il suo viaggio, e il suo omaggio, alle acque, alla foresta, alle comunità dell’Amazzonia, su piano preparato e qualche altro piccolo strumento – piccole percussioni. L’universo di suono futuribile, terreno, aereo, liquido, arcaico, che riempie YY (acqua o fiume nella lingua dei Sateré-Mawé), il suo ultimo album (Psychic Hotline). Complici forse le partecipazioni illustri, e soprattutto sintoniche, di Jeff Parker, Hamid Drake, Shabaka Hutchings, con questo disco Amaro ha fatto drizzare le antenne a molti, critici, media, e quel pubblico che lui chiama familia, e a show concluso saluta nel gesto antico del pugno chiuso. Lo abbiamo intervistato.

Partiamo dagli inizi: ho letto che ha iniziato a fare musica in una chiesa, in una linea molto classica della tradizione afrodiscendente, e non al piano.

È stato mio padre, che suona un po’ ogni strumento senza essere un professionista, a introdurre la musica nella mia vita. I miei genitori sono evangelici, ho iniziato a suonare nella Chiesa evangelica, alla batteria. Ma essendo molti i ragazzi che volevano suonarla, mio padre mi propose di passare a una piccola tastiera elettronica che avevamo. All’inizio mi è sembrata brutta, ma poi mi sono appassionato e ho cominciato a sostituirla al gioco, a giocare suonando. Suonare in chiesa, era per me una cosa molto seria, dare il tuo meglio, la tua musica, a Dio, ma allo stesso tempo era un divertimento, una gioia.

Nel suo ultimo disco fa un’immersione nelle acque, nei fiumi, nella foresta amazzonica. L’incontro con la cultura indigena, precoloniale, è stato inevitabile, e forse anche incantatore. Cosa ha portato nella sua musica, ed è più un omaggio o una traduzione?

Decisamente un omaggio. L’incontro con la cultura indigena, con la comunità Sateré-Mawé, è stato estremamente importante per il processo che stavo costruendo, per aprire un’altra possibilità al piano preparato. Il piano preparato da John Cage con materiali metallici manca di swing. E il Brasile è un posto di molto swing, molti ritmi. L’Amazzonia mostra un Brasile «precedente» a quello che conosciamo, dalla foresta vergine, dai fiumi enormi , dove accadono cose incredibili. È con questa natura, che sono connessi gli indigeni, con le leggende degli esseri magici, gli encantados, che la popolano, a cui credono davvero. Questo disco è un omaggio alla cultura indigena, parla di un Brasile prima della colonizzazione, e vuole essere un’allerta, un appello alla sua cura, a un impegno più serio. Quando suono Uiara, che in tupi-guarani è la madre dell’acqua, la immagino come una guardiana che ti invita ad entrare in acqua, a percepire la bellezza del mondo. Quando suono il Mapinguari, una specie di bradipo con la bocca sulla pancia, un occhio sulla faccia e che odia i cacciatori, so che è lì per proteggere la foresta, e se la invadi, ti trascina dentro e ti divora. Il Rio delle Amazzoni ha la maggior concentrazione di acqua dolce al mondo, e la quantità che riversa in mare ogni giorno è enorme, ma minore alle masse di umidità dei «fiumi volanti» generate dalla foresta, che a migliaia di chilometri di distanza determinano le precipitazioni del Paese. In Brasile le comunità primitive e i loro saperi hanno la maggior concentrazione del mondo, ed è fondamentale che restiamo collegati ad essi.

Musicalmente, cosa ha portato dai suoi viaggi nella zona di Manaus?

C’era già una forte connessione Pernambuco-Amazzonia attraverso il lavoro di Nana Vasconcelos, il grande percussionista pernambucano (a cui è dedicato un brano in Y’Y, ndr). Volevo capire meglio le leggende e sentire l’emozione di questo territorio, e usare i suoi strumenti, così ho comprato alcuni semi amazzonici e diversi fischietti per tradurre quel paesaggio sonoro. Contemporaneamente, ho cercato di ottenere dal piano preparato sonorità molto più brasiliane di quelle abituali. Ho usato mollette per bucato per il tamburo, del nastro per la kora, ebow per chitarra per produrre le voci del pianoforte. E ho collegato suoni e leggende. Per Uiara, due ebow nel pianoforte sono il canto ipnotizzante della sirena che ti porta nel fiume, e quello del boto-cor-de-rosa (un delfino rosa che trasformatosi in uomo ingravida donne per poi tornare delfino, ndr). Quando tu entri in acqua io metto la mano sinistra nel piano, la levo e la rimetto, suonando molto velocemente con la destra. La mano sinistra è la comunicazione fra i delfini che ti portano dal fiume al fondo dell’oceano, dove una moltitudine di animali riflette la luce. Il mio movimento sul piano ora è molto frenetico, e la domanda è: sei sicuro che in questo posto meraviglioso vuoi buttare un sacchetto di plastica? Oltre a questo, cerco di riprodurre il suono del primo tamburo, gli alberi millenari battuti dagli indigeni per comunicare anche a grande distanza. Questa mia costruzione con gli indigeni, convive con la cultura afro, con la vicinanza alla religione afrobrasiliane del mio territorio, alle tradizioni musicali e culturali del Nord, e alla mia educazione evangelica. In Dança dos Martelos la mia mano si divide fra questo Amaro nero, che entra nella cultura brasiliana, indigena, e le melodie, gli arpeggi che ricordano i canti della Chiesa di tradizione europea.

Quanta parte della sua musica è legata al Nordest del Brasile, da Luiz Gonzaga a Jackson do Pandeiro al manguebeat?

C’è tutto questo, ma combinato a un’altra maniera di guardare la musica. Una costruzione musicale è basata su armonia, melodia e ritmo, ma è il ritmo a caratterizzare più di ogni altro elemento la cultura. Oggi penso alle ritmiche di forrò, coco, maracatu combinate con polifonie non convenzionali, poliritmia, isoritmia, creando dimensioni ritmiche diverse in cui si riconoscano piccole cellule già ascoltate, insieme alle altre arrivate con gli anni.

La rivista Musica jazz le ha dedicato una lunga intervista e la copertina di marzo, scrivendo che «Y’Y» segna un passo decisivo nella riunificazione della musica nera. La sua musica è sempre stata nera, ma secondo lei qual è il suo contributo specifico?

Penso che il lavoro che stiamo facendo, non solo in Y’Y, ma da Rasif (secondo album, 2018, ndr) è già totalmente decoloniale. Rasif è una parola di origine araba, da cui deriva il nome della mia città, Recife. Il mio terzo disco ha per titolo un simbolo adinkra del popolo ashanti, Sankofa, che significa connessione fra passato, presente e futuro. Perseguire la coscienza di un Brasile che non ci è stato mostrato, insegnato, è estremamente importante per costruire questo racconto. Quando parlo degli encantados amazzonici, o di Cazumba (il personaggio magico che resuscita il bue nel bumba-meu-boi del Maranhao, ndr), lavorando l’immaginario a partire da una prospettiva contemporanea, rafforzo la tradizione culturale indigena, che è parte della nostra storia. In Sankofa omaggio la regina nera Teresa di Benguela, leader del quilombo (le comunità organizzate di afrodiscendenti e schiavi fuggiaschi sorte a partire dal secolo XVI, ndr) di Vila Bela, che guerreggiava contro i bandeirantes a caccia di fuggiaschi trasformando le armi in padelle. Un simbolismo molto forte: trasformare ciò che uccide in qualcosa che nutre. Il racconto di un altro Brasile, nero, indigeno, arabo, è il contributo, la riflessione che voglio lasciare col mio lavoro. La musica nera brasiliana è il Brasile, ma i musicisti che girano il mondo sono bianchi. La bossanova celebra Jobim, João Gilberto, Vinicius de Moraes, ma dimentica Johnny Alf, da cui tutti loro hanno imparato. Se compari la vita di giganti come Pixinguinha, Johnny Alf, Tania Maria, Elza Soares con i loro contemporanei bianchi, la differenza di stato sociale, condizione di vita, riconoscimento, è lampante. Voglio portare consapevolezza e autostima perché possiamo lavorare. Oggi esiste un grande movimento di artisti, scrittori, pensatori, ma c’è ancora molta difficoltà, molto lavoro da fare.