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All’ordine del giorno un piano economico per la futura Europa

All’ordine del giorno un piano economico per la futura Europafoto Ikon images/Ap

Elezioni europee È in gioco il ruolo Ue nella complessa ridefinizione degli assetti geopolitici mondiali, non a caso al centro delle Considerazioni Finali di Panetta, il nuovo governatore della Banca d’Italia

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 1 giugno 2024

Le ormai vicine elezioni europee evidenzieranno uno spartiacque per il futuro del continente, segnato da due terribili guerre alle sue porte, in Ucraina e in Medioriente. Nel contesto di un confronto acceso tra Cina e Usa e di un forte dinamismo di questi ultimi.
È in gioco il ruolo che l’Europa potrà e vorrà assumere nella complessa ridefinizione degli assetti geopolitici mondiali in corso, non a caso al centro delle prime Considerazioni Finali del nuovo governatore Panetta all’Assemblea della Banca d’Italia.

Tra le risposte maggiormente attese c’è la necessità di fronteggiare la obsolescenza del modello produttivo europeo, caratterizzato da trascuratezza della domanda interna e corrispondente eccessiva proiezione verso le esportazioni, dipendenza energetica e da altre materie prime, ritardi tecnologici. In questa situazione in grande sommovimento, in cui per dichiarazione esplicita dei governi dei paesi più potenti le regole concorrenziali non governano più le relazioni economiche globali, sarebbe nefasto se l’Europa futura si abbarbicasse su principi restrittivi di gestione della finanza pubblica e su una visione angusta della competitività e sul dogma della concorrenza. La “riforma della governance”, appena varata, è sbagliata proprio per la contraddittorietà tra nuove regole sempre molto restrittive e le grandi esigenze di investimento in transizione verde e in riorientamento della domanda interna verso i “beni pubblici europei” (ricerca di base, università, istruzione, cultura, sanità, riqualificazione ambientale e dei territori) che bisognerebbe soddisfare per affrontare l’obsolescenza del modello.

Storicamente l’Europa ha sempre visto convivere al proprio interno più visioni di sé stessa – per esempio l’Europa sociale e l’Europa dei mercati – di volta in volta lasciando prevalere l’una o l’altra. L’Europa mercatistica, con accenti marcatamente neoliberistici, ha seguito i principi del primato del libero mercato, degli stimoli indiscriminati alla concorrenza, del divieto degli aiuti di Stato. Ma, anche ammesso e non concesso che questi principi mantengano una loro validità, come potrebbero essere seguiti ora che l’Unione Europea deve darsi – e già si è data – obiettivi di sostenibilità ambientale, tecnologica e sociale estremamente impegnativi e vincolanti, anche in termini temporali, come la stessa Banca d’Italia sottolinea? Limitandosi alla reclamata riduzione delle emissioni nocive dell’88%, i fabbisogni di investimento dell’Unione Europea sono stimati in 15 mila miliardi di euro e pour cause gli interrogativi suddetti echeggiano anche nel Rapporto Letta e nelle anticipazioni del Rapporto Draghi.

Per l’Europa si pongono inediti problemi sia dal lato della domanda sia dal lato dell’offerta. Questi ultimi agiscono sulla dinamica della produttività e si pongono soprattutto in termini di innovazione: di prodotto, di processo e di struttura. L’attenzione che il governatore Panetta porta alle questioni della produttività e dei salari stagnanti dovrebbe fare spazio anche a una relazione inversa – dall’incremento dei salari alla produttività – a quella tradizionale (dalla produttività ai salari), perché la produttività non può crescere se non crescono i salari. La problematica dell’innovazione, giustamente tanto cara al governatore Panetta, va posta in termini radicali. La fase attuale dell’evoluzione tecnologica vede una grande turbolenza, legata in particolare ai processi connessi all’Intelligenza artificiale, di cui va segnalata anche un’incalzante militarizzazione, e agli spaventosi monopoli delle Big Tech che vanno, quelli sì, contrastati. L’Intelligenza Artificiale sta seguendo la stessa strada adottata dalle altre nuove tecnologie, cioè la destinazione dei loro miglioramenti, invece che ad elevamento del benessere generale e ad espansione dell’occupazione, a riduzione dei costi e a risparmio di lavoro che si rivelano in ultima istanza frenanti l’incremento di produttività, invece possibile se si valorizzassero di più le “anime creative” di cui parla Paolo Perulli (Anime creative Da Prometeo a Steve Jobs, il Mulino).

Inoltre, molte innovazioni necessarie e auspicabili non sono tutte già disponibili, alcune sono in grande misura da inventare e alla loro invenzione e al loro sviluppo non gioverebbe certo un’applicazione angusta dei principi della concorrenza mentre gioverebbero strumenti pubblici direttamente intervenienti sul lato dell’offerta, quale fu l’Iri in Italia nel primo ventennio del secondo dopoguerra. A proposito di produttività, è stato documentato che addirittura due terzi dello spettacolare incremento della TFP (total factor productivity) italiana – che pose l’Italia in cima alle classifiche internazionali – realizzatosi nei primi cinquanta anni del dopoguerra, si deve al contributo dell’IRI, così come si deve alla sua scomparsa, a seguito delle privatizzazioni della seconda metà degli anni ’90, il crollo negli indicatori italiani di crescita e di produttività.

Una politica congiunta dal lato della domanda e dal lato dell’offerta è necessaria per l’Europa perché il suo impegno dovrà essere non solo alimentare l’assetto produttivo esistente, ma cambiare la struttura della produzione, materiale e immateriale, e accelerarne la riorganizzazione, per conseguire un benessere più sostenibile, ecologicamente e socialmente. L’Europa ha molti potenziali ora impigliati in una trappola inerziale, per disinnescare i quali non bastano idee di competizione perfetta. Se è vero che l’Europa investe in R&S il 2,2% del Pil – l’Italia molto meno – mentre gli Usa investono il 3,5 e la Cina (che nel 1996 partiva dallo 0,5) supera l’Europa con il 2,5, è qui che la traiettoria va rovesciata.

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