Si è data appuntamento alle 10 di ieri mattina a Piazzale Clodio la scorta mediatica per Giulio Regeni. In un lunedì di primavera romana, la piazza si è colorata di giallo, il simbolo – da ormai sette anni – della ricerca di verità e giustizia per il giovane ricercatore italiano, rapito e ucciso al Cairo nel gennaio 2016.

Insieme alla famiglia, instancabile, Paola Deffendi e Claudio Regeni, e alla loro legale Alessandra Ballerini, c’erano le organizzazioni del giornalismo italiano: Fnsi, Articolo 21, Usigrai. E tanti venuti a portare solidarietà.

«UNA RISPOSTA più forte del solito – dice alla pagina Twitter Giulio siamo noi Beppe Giulietti, portavoce di Articolo21 – per far capire al governo che non si è presentato che noi combatteremo diserzioni, tradimenti, oblio. Non si può continuare a ritenere il traffico delle armi e la puzza dei soldi prevalenti sul diritto alla libertà e alla dignità. Continueremo a essere qui fino alla fine, fin quando gli imputati non saranno consegnati».

Un riassunto di quanto avvenuto (e non avvenuto) ieri di fronte al gup di Roma: l’udienza del 3 aprile avrebbe dovuto consegnare la testimonianza della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del ministro degli esteri Antonio Tajani, in merito alle promesse di collaborazione che il presidente egiziano al-Sisi gli ha affidato negli ultimi mesi, dove gli incontri sono fioccati.

Meloni lo ha visto a inizio novembre a Sharm el-Sheikh per la Cop26; Tajani a fine gennaio, una manciata di giorni prima del dodicesimo anniversario della Rivoluzione di Piazza Tahrir. A entrambi al-Sisi ha rinnovato lo stantio impegno a «rimuovere gli ostacoli» sull’omicidio di Giulio.

Meloni e Tajani, ieri, non si sono presentati ma non è stata una sorpresa: a inizio marzo l’Avvocatura dello Stato ha negato al gup la loro testimonianza perché i contenuti avrebbero riguardato colloqui riservati con un’autorità straniera.

QUEGLI OSTACOLI, però, stanno ancora tutti lì e hanno un nome e un cognome. O meglio quattro nomi e quattro cognomi: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif.

I quattro membri del temibile Nsa, i servizi interni egiziani, erano stati rinviati a giudizio in Italia nel maggio 2021 per sequestro pluriaggravato e, nel caso di Sharif, per concorso in lesioni personali e in omicidio aggravato.

Il processo non è mai partito: secondo la terza Corte d’Assise di Roma (ottobre 2021) non è possibile giudicarli senza la certezza che siano a conoscenza del procedimento in corso. Un punto dirimente che finora ha congelato la giustizia italiana, fermata dalla mancata comunicazione – da parte egiziana – degli indirizzi dei quattro agenti.

Ieri la questione è tornata in aula e l’udienza si è conclusa con due richieste e una nuova data. L’Avvocatura dello Stato – parte civile contro i quattro sospettati – in una memoria ritiene si debba andare avanti con il processo grazie alle modifiche introdotte dalla riforma Cartabia: si procede «in assenza» se la corte «ritiene provato che l’imputato ha effettiva conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza all’udienza è dovuta a una scelta volontaria e consapevole».

E poi la richiesta della Procura di Roma: i pm Colaiocco e Lo Voi hanno chiesto al gup di sottoporre alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità della legge che regola il processo in contumacia. Ovvero, secondo i pm, la necessità di abrogare l’articolo 420 bis del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede di proseguire nel procedimento quando l’assenza di conoscenza è dovuta alla mancata collaborazione di uno Stato estero.

ORA LA PALLA torna al gup: il 31 maggio, prossima udienza, potrebbe decidere di proseguire interpretando la legge Cartabia come chiesto dall’Avvocatura; potrebbe rinviare alla Consulta, come chiesto dai pm; o potrebbe decidere per il non luogo a procedere se ritiene che non esistano ancora prove che i quattro agenti egiziani sappiano di essere indagati.

Sullo sfondo resta la questione politica, pesante come un macigno. Il governo ieri non si è presentato. Un’assenza sottolineata dal Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma: «Sono certo che il governo stia facendo dei tentativi, ma vorrei ci fosse una coralità effettiva, che su questi temi fossero presenti i rappresentanti di tutte le forze politiche e le parti istituzionali».

Unica presenza politica la segretaria del Pd Elly Schlein: il sit-in serve per «dare un segnale di vicinanza alla famiglia di Giulio, alle tante persone che in questi anni non hanno mai smesso di chiedere verità e giustizia. Crediamo fortemente che questo processo debba andare avanti».

In serata l’intervento dell’ex presidente della Camera Roberto Fico, ora a capo del Comitato di Garanzia dei 5Stelle: «Siamo al fianco di Paola e Claudio Regeni per chiedere che chi ha sequestrato, torturato e ucciso il nostro ricercatore vada finalmente a processo».