Visioni

«All We Imagine As Light», donne nella sinfonia della città

«All We Imagine As Light», donne nella sinfonia della cittàUna scena da «All We Imagine As Light» di Payal Kapadia

Cannes 77 Con Payal Kapadia l’India torna in concorso dopo 30 anni, al centro Mumbai e le sue disuguaglianze. La politicità della forma, uno sguardo attento ai dettagli e alle emozioni

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 24 maggio 2024

All We Imagine as Light è arrivato quasi alla fine del Festival – decisamente un turning point per i titoli migliori, come il magnifico Grand Tour di Miguel Gomes – preceduto da commenti tutti entusiasti, e dall’emozione per il ritorno in concorso dell’India dopo trent’anni. L’autrice è una giovane regista, Payal Kapadia, scoperta nel 2021 dalla Quinzaine con A Night of Knowing Nothing. Già in quel film affermava una cifra poetica e politica personalissima e al tempo stesso in dialogo con quell’immaginario – dal classico Ray a altri autori più underground delle Nuovelle Vague – che del suo Paese ha saputo cogliere in profondità contrasti, rivolte, mutamenti, sconfitte, utopie. E che conferma il suo talento in questa nuova prova, un film pieno di invenzioni e di epifanie, che sa ascoltare il mondo e mettersi in gioco. Se nel precedente il punto di partenza era il movimento degli studenti universitari nel 2016, e l’amore impossibile fra due ragazzi, qui la cartografia dell’India di Narendra Modi si disegna attraverso tre personaggi di donne, il cui vissuto restituisce le fratture e le tragiche disparità che attraversano la società indiana intera.

Ma All We Imagine as Light è anche la sinfonia di una città, Mumbai, dove le protagoniste – come la regista – abitano, è la metropoli più popolata dell’India, che accoglie persone da ogni luogo del continente mischiando lingue e dialetti e religioni al punto che molti – come il medico dell’ospedale in cui le donne lavorano – fanno fatica a comprendere l’hindi. A Mumbai ogni villaggio ha almeno un famigliare, dice la voce fuori campo nelle prime sequenze intrecciandosi a altre, un coro sussurrato di storie che raccontano la ricerca di un piccolo spazio nella folla che non è soltanto fisico ma soprattutto esistenziale, significa andare avanti, non essere sopraffatti. La macchina da presa attraversa le strade, ne ascolta il respiro, pensieri e stati d’animo si sovrappongono quasi a restituire una interiorità collettiva all’improvviso non più anonima. Una donna per un anno ha lavorato presso dei ricchi e finalmente, dice, «ho mangiato bene, ma ero incinta…»; un uomo cambia mille lavori, la precarietà che inghiotte chi non sta dalla parte della ricchezza nell’India delle classi, della finanza che ha fatto di Mumbai il suo polo privilegiato, dei grattacieli e delle piccole baracche, dei magazzini di super lusso e dei mercati che sembrano appartenere a un altro tempo. Degli operai che sono cacciati ai margini pure se quella città l’hanno costruita, delle speculazioni che cancellano la memoria di ogni esistenza buttando giù case e quartieri per rifondarli nel segno dei privilegi.

Faccio film per capire meglio ciò che ho intorno. La trasformazione di Mumbai è davanti ai miei occhi, non posso guardare da un’altra partePayal Kapadia
Tutto questo nella grana in cui l’autrice tiene insieme le diverse direzioni narrative, scorre senza sussulti, senza sottolineature; è un film politico quello di Payal Kapadia a cominciare dalla sua forma, dalla scelta di una prospettiva che non termina nel suo soggetto, in modo piatto o pigro, come sempre più spesso oggi accade, ma che si apre alle invenzioni formali per esplorare molteplici sensi.

COSA CI DICONO allora le storie di Prabha (Kani Kusruti) e di Anu (Divya Prabha)? La prima è infermiera, la seconda allieva, condividono lo stesso piccolo appartamento a Mumbai, insieme a una gattina incinta, e Prabha è un po’ come la sorella maggiore. È una giovane donna chiusa, sempre molto trattenuta nelle sue emozioni, non esce mai con le altre nemmeno per andare al cinema, e di fronte al medico che la corteggia si irrigidisce. È sposata ma non vede il marito da molto tempo, lui è emigrato in Germania e dopo un po’ non si è più fatto sentire. Fino a quel pacco arrivato inaspettato con dentro una specie di minipimer di lusso. Il matrimonio era combinato, come succede spesso, una cosa che la giovane Anu non può tollerare e per questo litiga con la madre che le manda dal paesino le foto di possibili sposi. Lei si è innamorata di un ragazzo che è musulmano, mentre Anu è indù, un ostacolo insormontabile come è impossibile in quella città trovare un luogo per stare un po’ da soli. C’è poi Parvaty (Chaya Khadd), cuoca all’ospedale, ha sempre vissuto nelle abitazioni della vecchia fabbrica dove lavorava il marito ora la multinazionale edilizia la sta cacciando costringendola a tornare al villaggio, nella regione di Ratnagiri da dove era arrivata la maggior parte degli operai dell’industria tessile a Mumbai – chiusa poi negli anni Ottanta dopo un grandissimo sciopero -, ai quali era stato concesso di utilizzare un terzo dei terreni delle fabbriche per vivere, ma l’accordo non è stato rispettato e loro continuano a lottare.

«FACCIO FILM per capire meglio ciò che ho intorno. La trasformazione di Mumbai è davanti ai miei occhi, non posso guardare da un’altra parte, e rinchiudermi nei miei privilegi» ha detto la regista in una intervista ieri sul quotidiano «Libération». È nel contrasto fra il microcosmo dell’ospedale, i desideri e i sogni di ciascuna donna fuori che fluttuano come le nubi fuori dalle sue mura, l’aria soffocante di Mumbai e l’improvvisa apertura davanti al mare lì dove hanno accompagnato Parvaty, che si compone il movimento del film; un flusso che scorre verso la conquista di una nuova consapevolezza e forse di quell’aria nella quale i desideri possono infine liberarsi, i corpi amare, i fantasmi sparire. Sono i giovani a insegnare, a smuovere il cambiamento, il personaggio di Anu, con la sua rivolta perché innamorata, in questo che è anche un incontro e un passaggio di generazioni, nel quale circola la dolcezza dell’amicizia, della vicinanza, di un mondo femminile. Se la «lente» del genere permette una osservazione amplificata delle crepe sociali, dall’altra contiene l’energia del cambiamento. Lo sguardo di Kapadia – il film potrebbe essere il candidato alla Palma o almeno a un premio importante – lascia entrare in campo elementi imprevisti, è attento alla realtà dei dettagli, al colore, a un volto, a un suono. La sua regia osserva, trasmette le fragilità e i passaggi emotivi dei personaggi mettendosi vicina a loro, muta il quotidiano e senza trucchi né esibizioni di stile ne mostra la poesia. Il respiro mozzo della città nella seconda parte del film si placa in una foresta sensuale, un universo quasi fantastico, dove il tempo rallenta e ciascuno può ritrovare sé stesso insieme agli altri. Una prossimità fatta di cura, attenzione e complicità con cui affermare una possibile resistenza.

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