Cultura

Alicia Kopf, navigare su rotte invisibili

Alicia Kopf, navigare su rotte invisibiliLa nave «Endurance» dell’esploratore Ernest Shackleton intrappolata fra i ghiacci di Weddell in Antartide nel 1915 / foto di Frank Hurley

FESTIVALETTERATURA 2021 A proposito di «Fratello di ghiaccio», della scrittrice e artista catalana oggi a Mantova (Palazzo della Ragione, ore 18.30) in dialogo con Claudia Durastanti e Elisabetta Bucciarelli su auto-fiction, memoir e disabilità. Esordio composto come un diario di viaggio, anche nelle sue performance si segue il filo dell’affettività. Le esplorazioni polari dell’Antartide e dell’Artide si intrecciano con le trame famigliari e l’esperienza di essere sorella di un ragazzo con un disturbo dello spettro autistico

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 8 settembre 2021

«Insistere e avanzare fino al punto cieco attorno a cui tutto è bianco e da cui non si vede nulla e non si sa bene in che direzione camminare; a partire da quel momento è importante fissare misure, delimitare e, anche se a stento, identificare al meglio l’origine e la direzione dei propri passi». Questa la descrizione che Alicia Kopf, nom de plume dell’artista catalana Imma Ávalos Marquès, fa a proposito della «narratrice cava» presente nel suo esordio letterario Fratello di ghiaccio (Codice edizioni, pp. 256, euro 16, traduzione di Livia De Paoli – pubblicato nel 2016 da Alpha Decay e tradotto in nove lingue).

SAPPIAMO PERÒ cose più decisive della impresa che la scrittrice e performer fa in questa sua prima prova, tra il memoir e il diario artistico e di viaggio. A essere cava è infatti la terra, per la teoria che nel 1818 John Cleves Symmes aveva reso pubblica e secondo cui è bucata in corrispondenza dei poli, comunicanti, dotata di sette sfere concentriche e solide, abitabile all’interno. È un immaginario di nessuna evidenza scientifica eppure ha influenzato, tra gli altri, Edgar Allan Poe e Jules Verne e che, a proposito di Kopf, produce conseguenze più interessanti.

Essere anfibie tra scrittura e arti visive le porge infatti l’occasione di saltare in altri giochi linguistici che non siano quelli né prettamente letterari né esclusivamente performativi ma di allestire una indagine attorno alla metafora della esplorazione. In questo senso ci sono precedenti notevoli, Judith Schalansky e il suo Atlante delle isole remote, per quanto concerne l’apertura verso mondi altri e troppo lontani da raggiungere che esistono a prescindere dalla nostra presenza; è il caso però anche di Jenny Offill e il suo Le cose che restano, per quanto invece significa l’intersezione tra scienza e rappresentazione della realtà.

NEL PRIMO risultano delle descrizioni, accompagnate da disegni prodotti dalla stessa Schalansky; nel secondo è invece il desiderio potente di una bambina, inventata dalla penna di Offill, di comprendere il linguaggio famigliare deprivante attraverso le costellazioni. Se andiamo al fondo di questi ibridi intuiamo l’investigazione affettiva che ne affiora e che comprende il terrestre, il celeste e infine il fuori sesto di spazio e tempo. Anche Fratello di ghiaccio di Alicia Kopf ruota attorno a una magnifica ossessione dell’autrice, ovvero l’Antartide e l’Artide; anche Daniele Del Giudice aveva scelto una simile geografia sentimentale nel suo abbacinante Orizzonte mobile. Quale sia l’incanto nei riguardi di un occhio che sa cucire perlustrazioni emotive e leggi sottese al reale, lo scrive Kopf: «quando le cose sono scomode o non si possono mostrare è lì che si sta mostrando qualcosa di interessante. È quello il punto di non ritorno, dove bisogna arrivare; il punto a cui si arriva quando si oltrepassa la frontiera di quello che si è già detto e già visto. Fa freddo lì».

IL PROTAGONISMO paesaggistico è più largo di un continente, possiede lentezza e non essendo perimetrabile produce parzialità umana, il contrario dell’onnipotenza antropocentrica, è «l’idea di ricerca in uno spazio instabile», interrogarlo là dove, come nel suo intento, si sono trascorsi anni a non capire cosa stesse succedendo accanto a lei eppure a difenderne il candore, fin dall’infanzia.
Al fratello maggiore di Kopf, M nel libro, attribuiscono svariate sindromi fino ad arrivare al disturbo dello spettro autistico. All’epoca aveva trent’anni, ora ne ha 45. E siccome «è il nome che fa la cosa», lei è grata e comincia a parlarne. Scrive e mette ordine in una enormità, a partire dall’interrogarsi sulla disabilità che non si rende immediatamente visibile e che dunque non riscontra nel circostante così tanta indulgenza, lo segnala con semplicità e senza troppi dettagli da una posizione di sorella che ha trascorso infanzia e adolescenza domandandosi cosa capitasse a chi amava.

E senza poterne chiedere conto. Senza ricevere risposte per altri lunghi anni e resistendo nell’incognita esiziale di cosa accadrà al proprio caro un giorno, cosa ne potrà essere di lui, comincia a rassicurarsi con le storie di esploratori ed esploratrici che raggiunte quelle distese gelate sapevano bene della parte invisibile che giaceva nel sottosuolo e che mai avrebbero potuto espugnare. Nel libro non ci sono teoremi sull’autismo, né è facile trovarne da parte di chi ne fa esperienza diretta proprio perché ogni autistico o autistica è diverso e diversa dagli altri (sul tema è appena il caso di citare il lavoro meticoloso e serio che Enrico Valtellina porta avanti in Italia con i Critical Autism Studies, accanto ai già più noti Disability Studies).

APPRENDIAMO però da Kopf la vulnerabilità di una madre per cui non c’è bisogno di spostarsi fino ai poli per comprendere quanto estremi siano i territori che si debbono attraversare nell’occuparsi di un figlio che non sa esprimere le proprie esigenze primarie. E con attenzione affiora la fatica della solitudine nella mancata percezione della distanza incolmabile. Come nella impossibilità di mantenere l’asse in un corso di danza qualsiasi. È la precisione di quel silenzio, un vuoto smarrito nei corpi, che l’autrice catalana cerca di rendere visibile. E siccome ogni famiglia disfunzionale è infelice a modo suo, Kopf tenta di negoziare un accordo prendendo parola e mettendosi al mondo da sé; osservando la glaciazione del desiderio, il suo di cui parla diffusamente e che l’ha spinta a inerpicarsi, in ruminazioni prima e fantasie poi, su chi non si è mai innamorato profondamente di lei.

O ancora verso chi non ha usato delicatezza per spiegarle che essere nata dopo un fratello con una disabilità non significava averla scelta come ornamento o sorella da compagnia. Il resto sono gli scorsi di una Barcellona contemporanea e i molti arcipelaghi di un disamore cui poter scampare, visitati o solo sognati, ci sono i suoi autostop islandesi e infine diversi ritratti, per esempio quello della prima esploratrice artica Louise Boyd; nel 1924 cerca di riparare la propria orfanità andando verso i ghiacciai che toccano la calotta polare e dice «Vorrei essere lì, a guardare cosa c’è fuori, invece di essere qui, a guardare che cosa ho dentro».

L’INTELLIGENZA relazionale di Kopf non è nuova, tuttavia, a percorsi complessi, tutto si lega come succede nel suo lavoro artistico Speculative intimacy che riannoda le traiettorie governanti l’attrazione tra corpi celesti, e il modo in cui ciò possa avere qualche ricaduta sulle ragioni della vicinanza amorosa tra esseri umani. Di quanto siano consonanti gli osservatori planetari e i laboratori di oftalmologia nell’indicare le storie che esistono nei cieli e negli occhi delle persone incontrate. Le ha chiamate «moltitudini», e ancora una volta non ha sbagliato. Delle sette figure narrative individuate in Fratello di ghiaccio, tante quante erano le sfere di Symmes, non c’è allora niente di cavo, è invece piuttosto pieno «di matrice». E di vite, comprese quelle che continueranno a rimanere segrete.

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SCHEDA. La nuova voce dell’inanimato

Sempre seguendo lo sconfinamento dei linguaggi, in un saggio pubblicato di recente in Messico nella antologia di testi tra scritture e arti «En una orilla brumosa», a cura di Verónica Gerber Bicecci (Gris Tormenta), Alicia Kopf nella sezione «No humanas» si occupa di «La nueva voz de lo inanimado». Allestisce un dialogo con un bot (l’interfaccia Cleverbot, chat di conversazione con intelligenze artificiali, qui: www.cleverbot.com). Il processo esplorativo arriva alla «mancanza di conoscenza da parte dell’umano verso il non umano, verso ciò che non ha voce». È un vuoto, significativo in cui però lo sforzo di Kopf, come nell’arte e nella scrittura, è comprendere in che modo esista una relazione, si possa o no generare. Non stupisce che il punto di frattura ma di cruciale portata sia proprio la domanda per cui il bot le chiede, ricombinando le risposte precedenti, che cosa sia l’amore e alla sua risposta «Non lo so», esso replichi con «Non sei umana». Il chat-bot ignora però che è proprio in quel non-sapere a giocarsi la partita fondamentale su cosa sia umano e cosa sia disumano, dentro un orizzonte postumano. (al. pi.)

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