Alice Diop: «Siamo molto di più dei modelli in cui vogliono confinarci»
Cinema Incontro con la regista francese, premiata a Venezia, il suo «Saint Omer» è dall’8 dicembre nelle sale. La scrittura, l’esperienza della migrazione, le difficoltà della maternità
Cinema Incontro con la regista francese, premiata a Venezia, il suo «Saint Omer» è dall’8 dicembre nelle sale. La scrittura, l’esperienza della migrazione, le difficoltà della maternità
È al crocevia tra questione sociale e post-coloniale, mitologia, letteratura e cronaca che si situa Saint Omer, il film della regista francese Alice Diop in uscita nelle sale italiane l’8 dicembre. Al centro, il resoconto fedele del processo avvenuto nella cittadina omonima, situata vicino a Calais, dove a essere giudicata è una donna che ha confessato di aver ucciso la propria figlia di 15 mesi. Le dichiarazioni dell’imputata, nata in Senegal – nella realtà chiamata Fabienne Kabou, Laurence Coly nel film, interpretata da Guslagie Malanga – sono attraversate dall’ambiguità tanto quanto dal malessere, cresciuto sempre più nel corso della sua esistenza in Francia. Un lento scomparire dalla vita sociale – «non so però se lei che si nasconde o se piuttosto non è stata vista, essere neri in Francia significa fare esperienza dell’invisibilità», chiosa la regista – la frustrazione delle proprie ambizioni e una profonda mancanza di riconoscimento sono alcuni degli elementi di questa vicenda non certo, purtroppo, isolata. Il mito di Medea è il riferimento principale, a cui se ne aggiungono però molti altri – da Lo straniero di Camus, con il suo crimine «inspiegabile» e la ritualità processuale, fino alla stregoneria, paradigma culturale «altro» per rendere conto dei fatti. Il controcampo di Coly è rappresentato dalla scrittrice Rama che segue il processo e che vive sulla propria pelle i dubbi legati alla maternità, in un gioco di specchi tra prossimità e distanze con l’imputata.
IL FILM ha avuto grande successo, con i suoi due premi vinti all’ultima Mostra di Venezia – Leone d’Argento per il Gran premio della giuria e quello per la miglior opera prima – e in molti altri festival internazionali. È la prima volta che Diop si confronta con la fiction, dopo diversi documentari tra cui l’ultimo Nous (2021) che partiva proprio dalla figura della madre della regista, senegalese immigrata in Francia, donna delle pulizie morta prematuramente. Ed è questo racconto delle «black lives» che, a prescindere dalla forma scelta, Diop porta avanti. La incontriamo a Roma, a Villa Medici, dove ha presentato il film.
Perché hai deciso di parlare della maternità attraverso questa vicenda di cronaca?
Quello della maternità è un tema universale che viene affrontato almeno a partire dall’antichità classica con il mito di Medea. Non ne avrei parlato se non fossi rimasta affascinata da Fabienne Kabou: il modo che aveva di raccontare la sua storia e il suo crimine apriva un campo all’immaginario con elementi mitologici, tragici e psicoanalitici. Nel primo articolo scritto sul caso da «Le Monde» ho letto che l’accusata aveva dichiarato: «Ho lasciato la mia bambina sulla spiaggia con l’idea che il mare avrebbe preso il suo corpo». Queste parole mi hanno colpito, se avesse detto «ho affogato mia figlia» non avrei seguito il processo. È stata questa elaborazione quasi letteraria ad attirarmi, una sublimazione che rendeva possibile la messa in questione di ciò che Kabou aveva compiuto.
C’è una difficoltà del linguaggio giuridico nell’affrontare i sentimenti, un vuoto percepibile in «Saint Omer».
Non avevo mai partecipato a un processo e mi ha colpito il tentativo di restituire la complessità di un personaggio e della sua psiche attenendosi solamente ai fatti oggettivi. Questa ricerca entra in conflitto con il mistero assoluto davanti al quale ci troviamo. È come se Dostoevskij, che ha tentato di sondare l’abisso dell’anima umana, dovesse usare un discorso materiale, scientifico, obiettivo. Il che si collega al motivo per cui per me è così difficile parlare del film, sento che i giornalisti vorrebbero che scegliessi un aspetto di lei, un tema, una frase che possa riassumere tutto. Invece la messa in scena di questo lavoro ha a che fare con la sua complessità, con gli strati che la costituiscono.
È il tuo primo film di finzione dopo diversi documentari. Ci sono delle differenze nella ricezione?
Credo che il successo del film abbia dato la possibilità di porre ad un pubblico più numeroso una serie di domande politiche che per me sono importanti. Ho iniziato a fare cinema documentario perché mi mancavano alcune rappresentazioni che rendessero possibile una comprensione più profonda della società in cui vivevo. In particolare c’erano poche riflessioni su cosa significhi essere un cittadino francese e europeo che ha vissuto o attraversato la questione migratoria e post-coloniale. Posso dire che la ricezione del film e di me stessa in quanto cineasta non è la stessa in Francia rispetto ad altri luoghi come gli Stati Uniti dove sono appena stata. In Francia il film è stato accolto molto bene dalla stampa, anche perché sono una figura nuova nel panorama: sono poche le donne nere che fanno cinema, c’è Mati Diop ma lei lavora sulla società senegalese mentre il mio film parla di quella francese. Allo stesso tempo però molte delle recensioni che ho ricevuto riguardano la mia persona invece della forma o della scrittura del film, e in alcuni casi sono stata definita arrogante e pretenziosa per aver citato Pasolini e Marguerite Duras. Negli Stati Uniti, dove già trent’anni fa è stato assegnato un premio nobel a un’intellettuale nera come Toni Morrison, non stupisce il fatto che io abbia questi riferimenti. Sono quindi diventata il soggetto del film mio malgrado, e le critiche che mi sono state fatte sono dello stesso genere di quelle che riceve il personaggio di Laurence Coly: la sua perfetta pronuncia del francese, la sua cultura, il suo interesse per la filosofia di Wittgenstein e non per qualche autore più «appropriato» alla sua provenienza le vengono rinfacciati. Chi sostiene queste tesi non si rende neanche conto di essere razzista ma è così. È come se dovessi essere confinata in un luogo noto e riconosciuto perché molte persone hanno una visione limitata di cosa può essere una donna nera.
Hai diversi elementi in comune con il personaggio di Rama.
È un personaggio di finzione ma ci sono degli aspetti che condividiamo perché specifici di due donne nere nate in Francia, attraversate dall’esperienza della migrazione che porta con sé melanconia e depressione. Allo stesso tempo però non bisogna essere una donna nera per riconoscersi in Rama, le domande che lei pone sulla maternità sono universali. Il suo personaggio è scritto proprio per far rispecchiare in lei tutte le donne del mondo.
Come hai lavorato sul ritmo?
Trovare l’equilibrio tra i due personaggi è stata la cosa più complessa. Da un lato c’era un personaggio «reale», documentario, estremamente potente; dall’altro un personaggio di finzione. All’inizio volevo metterli allo stesso livello, volevo rendere Rama eccezionale tanto quanto Laurence Coly, ma è stato uno scacco. Il film ha trovato il suo respiro quando ho accettato la differenza essenziale tra loro.
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