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Alexander Nanau, segreti e bugie delle istituzioni rumene

Alexander Nanau, segreti e bugie delle istituzioni rumene

Intervista Parla il regista di «Collective», sull’incendio del 2015 in un club di Bucarest

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 23 febbraio 2021

I Nella shortlist degli Oscar sia come miglior documentario che nella categoria dei film internazionali (per la Romania), Collective di Alexander Nanau – disponibile sulla piattaforma iwonderfull.it – parte da una tragedia del 2015, l’incendio al club Colectiv di Bucarest dove sono morte 27 persone, ma parla all’oggi con la sua condanna della corruzione endemica delle istituzioni rumene. Alle 27 vittime dell’incendio ne sono infatti seguite altre 37 fatte dal sistema sanitario, dall’uso di igienizzanti diluiti, dall’inadeguatezza delle strutture spacciate fra le migliori d’Europa mentre veniva proibito ai feriti di andare a curarsi all’estero.

Un sistema marcio smascherato dall’inchiesta giornalistica di Catalin Alontan e del suo giornale – la «Gazette», un quotidiano sportivo – e che ha portato alle dimissioni dell’intero governo. «Dopo l’incendio del Colectiv – racconta Nanau – ci sono state le più grandi manifestazioni che la Romania avesse visto dai tempi della rivoluzione, e per la prima volta le generazioni più giovani si sono riversate nelle strade per protestare contro la corruzione della classe politica. Volevo capire il rapporto fra il potere di uno Stato, ancora nel processo di diventare una democrazia funzionante, e i cittadini». Lo scorso gennaio, per il suo film, a Nanau è stata offerta dal governo rumeno la medaglia al merito culturale, che il filmmaker ha rifiutato.

Come mai questa scelta?
Volevano premiarmi per il mio «contributo alla cultura rumena», ma poiché la Romania sin dal principio dell’emergenza sanitaria non ha disposto alcun piano per sostenere l’industria culturale – specialmente il cinema e i teatri indipendenti – sarebbe stato ipocrita da parte mia far finta che andasse tutto bene, e accettare di venire usato come un simbolo positivo della gestione del settore culturale. Al mio rifiuto è seguita una reazione tipica delle istituzioni rumene: hanno cominciato a diramare dei comunicati stampa menzogneri in cui sostenevano che io avessi preteso dei soldi. Bugie e manipolazioni che sono continuate: hanno pubblicato un elenco dei fondi alle produzioni includendo il contributo che Collective aveva ricevuto nel 2016, ma senza specificare quando, né che quei soldi erano stati vinti tramite un bando pubblico, per far credere che li avessi ricevuti durante la pandemia. Per legge, il centro nazionale di cinematografia rumeno deve fare due bandi di finanziamento all’anno: durante la pandemia non ce n’è stato neanche uno, senza neppure spiegare il perché. Quindi nel 2022/2023 non ci sarà nessuna nuova produzione rumena. E hanno scelto di deviare la discussione denigrando me.

«Collective» è una condanna del sistema sanitario rumeno, oltre che della corruzione generalizzata delle istituzioni, che assume ancora più rilevanza dopo lo scoppio della pandemia.
La crisi è stata gestita in modo incompetente: quando è cominciata, come in altri Paesi, la politica ha negato fino all’ultimo che fosse un problema. È stata la società civile, le Ong, a fornire i dispositivi di protezione ai dottori negli ospedali, che temevano di venire tutti infettati. E la stampa ha rivelato che c’è stata tantissima corruzione nell’acquisto di questi dispositivi, alcuni non erano neanche funzionanti, e sono stati dati milioni a compagnie losche. Anche gli ospedali Covid sono stati costruiti con il contributo della società civile e non dallo Stato.

Pensa che l’ingresso del suo film nelle shortlist di due diverse categorie agli Oscar possa dare un contributo a far cadere le barriere fra cinema «di finzione» e documentario?
Credo che le storie siano storie, e il cinema è cinema – un’ arte che dovrebbe funzionare come un buon romanzo, che consente di immergersi in un mondo. La distinzione fra documentario e fiction sta cambiando, ma trovo che sia ingiusto che i documentari vengano sempre trattati come «figli di second’ordine»: nel cinema di finzione vengono riconosciute tutte le diverse professioni che contribuiscono alla realizzazione di un film, mentre nell’ambito del documentario c’è solo un premio: quello al documentario appunto. Ma anche in questo caso è una squadra di persone a contribuire alla nascita del film, e anche le loro professionalità andrebbero riconosciute – è sempre un lavoro collaborativo ed è sempre cinema.

Il «protagonista» del suo film è un po’ un outsider: un giornalista sportivo che svela i retroscena del potere.
In Romania Alontan e i suoi colleghi erano già «famosi» per aver indagato il potere attraverso il mondo sportivo. La stampa mainstream invece è molto vicina al potere, e per questo i whistleblower hanno fatto affidamento sui giornalisti sportivi, di cui si fidavano di più.

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