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Alexander Nanau: «Mi sono sentito come un fotografo di strada»

Alexander Nanau: «Mi sono sentito come un fotografo di strada»Alexander Nanau

Venezia 76 Parla il regista del film presentato fuori concorso «Colectiv»: «Quando le persone coinvolte nel film hanno capito che avrei passato un anno con loro, si sono aperte con me e hanno preso coscienza dell’importanza di quello che stavano facendo

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 5 settembre 2019

Quando e come ha deciso di fare un film sull’incendio del Colectiv seguendo l’inchiesta condotta dal giornalista Catalin Tolontan e dalla sua equipe?

Ho deciso con Hbo Europe di fare un film su quella vicenda perché mi sembrava rappresentativa della corruzione e dello stato della salute pubblica e della democrazia in Romania. Dunque, su suggerimento della mia co-sceneggiatrice Antoaneta Opris ho contattato Tolontan, giornalista sportivo che era già noto come giornalista investigativo perché aveva fatto cadere qualche testa a livello ministeriale nell’ambito sportivo. Dopo l’incendio al Colectiv, lui è passato dall’indagine sullo sport a quella sulla salute pubblica e quindi stava cercando di capire perché erano morte tante persone. Lui non è stato subito disponibile, pensava forse facessi parte dei Servizi segreti, ma poi mi ha permesso di accompagnare tutte le sue indagini, man mano che gli arrivavano denunce sullo scandalo del sistema sanitario nazionale. Ha capito che il mio intento era capire come funziona la società e come il giornalismo può contribuire a cambiarla.

Il film è corale ma il focus è posto prima su Tolontan, che con le sue rivelazioni contribuisce alle dimissioni del governo, e poi sul nuovo ministro della salute Vlad Voiculescu. Nel film c’è un passaggio di testimone tra i due personaggi come lo ha pensato e come è riuscito a realizzarlo in modo così fluido?

Il mio intento era raccontare la vita di persone che si mettono completamente al servizio della società. Catalin non si ferma mai, Vlad aveva un altro lavoro ma decise di rinunciarvi per il bene collettivo: lui è uno che ogni estate, nella casa dei suoi, organizza campi estivi per bambini malati di cancro in cui presta cure e mette i pazienti in contatto con i migliori medici. Sono entrambe persone che vanno contro un sistema corrotto e disumano cercando di non perdere la capacità di empatia. La continuità tra loro è data dalla loro umanità e dal loro coraggio, dalla loro capacità di fare società.

Il suo approccio documentaristico mostra il rapporto tra lo stato e i cittadini e il funzionamento dell’informazione e della politica nel suo farsi, senza voce off, senza interviste. È un cinema dell’osservazione che ricorda Wiseman. Si riconosce in questo riferimento?

Ho elaborato il mio linguaggio cinematografico studiando il cinema di osservazione per capire come catturare la vita nel suo scorrere. Wiseman è sicuramente un punto di riferimento per me, ma ancora di più i fratelli Maysles e il loro Salesman che trasforma una persona normalissima in qualcuno con cui lo spettatore si identifica. Questa è stata la mia sfida già in Toto e le sue sorelle: ho vissuto a lungo con i protagonisti del film e cercato di catturare la loro vita, come un fotografo di strada attendevo lungamente che emergessero situazioni, emozioni, immagini in grado di sintetizzare tutto un personaggio, la sua vita, il suo modo di agire. Inoltre, cerco sempre di cancellare la mia presenza per permettere allo spettatore di sentirsi immerso in ciò che guarda. Inoltre, per questo film ho visto tutto il cinema classico sul giornalismo d’indagine, compreso Tutti gli uomini del presidente e persino Quarto potere, ma il film più importante per me è stato Il caso Spotlight, che era uscito in quel periodo, e che mi dimostrava che si poteva fare un film su una vera inchiesta giornalistica in modo molto realistico e coinvolgente.

Tedy Ursuleanu, sopravvissuta ma rimasta gravemente ustionata dall’incendio nel locale, utilizza l’immagine del suo corpo ferito come strumento di denuncia. È stato semplice coinvolgerla nel progetto?

All’inizio non è stato facile lavorare con lei, durante i nostri primi incontri era molto timida, sempre coperta, e io anche ero molto timido nei suoi confronti. Ma nei mesi successivi è stata lei a intraprendere una trasformazione che l’ha resa una persona diversa e disponibile a essere filmata. È stata una fortuna per me che lei stessa abbia saputo evolvere in questa direzione e usare il suo corpo per denunciare ciò che le è accaduto.

Si può dire che il cinema è stato uno strumento di empowerment per lei?

Sì, è stato il caso di tutte le persone coinvolte in questo progetto. Quando hanno capito che avrei passato un anno con loro, si sono aperte con me e hanno preso coscienza dell’importanza di quello che stavano facendo.

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