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Alexander Dugin, l’uomo simbolo della dottrina autoritaria e bellicista del Cremlino

Alexander Dugin, l’uomo simbolo della dottrina autoritaria e bellicista del CremlinoAlexander Dugin – foto Ap

Il vero obiettivo dell'azione La svolta ipernazionalista di Mosca ha avuto fin qui il volto del 60enne moscovita scampato domenica ad un attentato che ha ucciso sua figlia. Studioso di Evola e de Benoist, fautore dell’Eurasia, vicino a Salvini, Le Pen e ai neofascisti

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 23 agosto 2022

Quale che sia il suo vero rapporto con Putin – è stato definito più volte come l’ideologo del Cremlino anche se non ha alcun incarico istituzionale – non c’è un simbolo più forte del Ventennio putiniano di Alexander Dugin. La svolta ipernazionalista di Mosca, segnata dalle culture dell’estrema destra e da una politica estera di guerra, dalla Cecenia all’Ucraina, ha avuto fin qui il volto del 60enne moscovita scampato domenica ad un attentato che ha ucciso sua figlia.

GIÀ ESPONENTE del gruppo neozarista e antisemita Pamjat e del circuito nazionalbolscevico negli anni Novanta, accanto a Éduard Limonov scomparso lo scorso anno, responsabile di riviste della destra radicale come Den e Elementy che hanno fatto conoscere in Russia le idee di René Guénon, Julius Evola e di Alain de Benoist (capofila della Nouvelle Droite), Dugin si è via via avvicinato agli ambienti del potere di Mosca che erano alla ricerca di un orizzonte culturale e ideologico che accompagnasse la loro ascesa come «cleptocrazia», per dirla con la studiosa britannica Catherine Belton.

Legato alle forze armate, agli ex apparati di intelligence come ai vertici del partito-regime Russia Unita, ma apprezzato anche dai comunisti della Federazione russa di Zjuganov, in virtù della dottrina geopolitica sul ritorno sulla scena internazionale di una Russia forte, Dugin ha insegnato Sociologia all’Università Lomonosov di Mosca prima di trasformarsi in uno degli opinionisti più ascoltati e presenti sui media e la rete del Paese.
Allo stesso tempo, fin dalla metà degli anni Novanta, Dugin ha intessuto relazioni stabili con gli ambienti neofascisti e l’estrema destra italiana ed europea.

Dapprima con il circuito sorto intorno alle edizioni Barbarossa di Maurizio Murelli e quindi direttamente con la Lega: sarà l’intellettuale tradizionalista ad intervistare Salvini, in occasione di una visita a Mosca nel 2016, negli studi della tv del ministero della Difesa, mentre esponenti leghisti e neofascisti parteciperanno alle numerose conferenze svolte da Dugin nel nostro Paese.

IL SUO NOME EMERGE anche nell’inchiesta sull’incontro all’hotel Metropol di Mosca del 2018 e la presunta trattativa sul gas tra gli uomini di Salvini e di Putin. Di recente, segnala l’Ansa, è arrivato anche l’apprezzamento per Giorgia Meloni e per la sua opposizione al «globalista e liberale Draghi». Molto forte anche il legame di Dugin con i vertici del partito di Marine Le Pen.

L’orizzonte ideologico che l’uomo ha contribuito a tracciare attraverso decine di opere ispirate al tradizionalismo evoliano come all’eco delle tesi sulla specificità del Russkiy mir (il mondo russo) si può riassumere nei termini di una «rivoluzione conservatrice» all’interno e di una nuova proiezione bellica all’esterno della Russia.

Al centro della traiettoria di Dugin riemergono le tesi «eurasiatiche», apparse negli ambienti dei russi bianchi fuggiti dopo il 1917, mescolate in qualche modo con il nazional-comunismo che iscrive anche l’Urss di Stalin nel ciclo della grandezza perduta del Paese. Secondo questa visione, la Russia rappresenta uno spazio a sé stante tra l’Occidente e l’Asia a cui spetta un ruolo di primo piano nella geopolitica internazionale e uno spazio territoriale da riconquistare, a partire dall’«integrazione dello spazio post-sovietico» anche manu militari: Bielorussia, Kazakhstan, Moldavia e Ucraina.

INOLTRE, PER DUGIN, «un impero di dimensioni continentali, esige un proprio modello di direzione» che non imiti la democrazia liberale. A suo giudizio, «la democrazia occidentale non rappresenta un criterio universale. La partecipazione del popolo della Russia alla direzione politica non rifiuta la gerarchia e non deve essere formalizzata in strutture partitico-parlamentari». Come a dire che a giustificare la guerra c’è un orizzonte esplicitamente neo-autoritario.

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