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Albania, nel deserto i lavori sono in corso. La metà del centro ancora non esiste

La parte ancora in costruzione del Cpr di GjaderLa parte ancora in costruzione del Cpr di Gjader

La segregazione in strutture provvisorie Su 144 posti totali solo 24 sono pronti, il resto è un cimitero di aerei dismessi

Pubblicato circa 5 ore faEdizione del 18 ottobre 2024

È una distesa di terra color sabbia la metà del cpr nella struttura di Gjader, il complesso di edifici che ospita il penitenziario italiano in Albania, ancora tutto in costruzione. Non un mattone, nessuna parvenza di alcun edificio.

Il cpr, nel suo complesso, dovrebbe offrire 144 posti ma finora pare ne siano pronti solo 24. Dei restanti 120 non c’è ancora alcuna traccia.

Il piazzale appena sotto la collina è ancora occupato da quel che resta della vecchia base militare dismessa nel 2000 e poi utilizzata, fino all’accordo Rama-Meloni, come deposito per aerei da combattimento ritirati dal servizio.

Carcasse di velivoli si vedono in lontananza accanto ad un complesso di edifici abbandonati. Un militare albanese gira in motorino, è una delle poche persone in questo terreno quasi desertico. Alcuni finanzieri italiani fanno da vedetta al confine con la parte di cpr già pronta, dove intanto sono in visita i parlamentari Paolo Ciani (Pd), Rachele Scarpa (Pd) e Riccardo Magi (Più Europa), arrivati ieri mattina in Albania. Tre gru, ferme richiamano l’attenzione, per i loro colori vivaci nel bel mezzo del nulla. Al di là dello sbarramento di finanzieri italiani, la parte di cpr già pronta è «davvero spaventosa» ha dichiarato Riccardo Magi. «Raramente mi era capitato di vedere in un posto sperduto come questo, una gabbia anche sul soffitto. Come se durante l’ora d’aria qualcuno potesse volare e fuggire», racconta il deputato appena uscito dal centro di Gjader, che definisce «un luogo con tutte le sembianze di un lager», dove «è tutto quanto eccessivamente contenitivo e afflittivo».

Il pavimento del cpr, però, è verde, dicono, per rilassare i migranti trattenuti in una gabbia in un luogo dove non c’è niente. Qui le stanze sono più piccole di quelle del penitenziario, rinchiuse dentro container prefabbricati, che a loro volta stanno dentro un’area chiusa, che li separa dal centro per richiedenti asilo.

Le celle del carcere, blu al loro esterno, sono invece ingabbiate dentro delle grate che tengono sigillate le finestre e da una imponente porta in ferro. Dentro c’è una serie di letti a castello, ancora spogli da lenzuola e coperte. Al centro c’è il piccolo cortile quadrato destinato all’ora d’aria dei detenuti, da qui il cielo si guarda da una grata. L’ombra della luce che passa dalle sbarre in ferro si proietta sul pavimento e sulle mura delle celle.

Il resto dello spazio destinato ai richiedenti asilo è una serie di prefabbricati posti uno accanto all’altro in maniera circolare, al centro un palo della luce con numerosi altoparlanti di cui non si conosce ancora l’utilità. Qui alcuni letti non hanno ancora neanche i materassi. Anche questo complesso è separato da una grande recinzione in ferro. In tutta la struttura non c’è un luogo destinato allo sfogo o alla preghiera. Sembra surreale, uno spazio distopico in una zona dell’Albania poverissima, abitata solo da pochi anziani e contadini.

Nel suo complesso il centro oggi conta 352 posti per chi fa richiesta d’asilo: su 880 posti previsti, 24 posti nel cpr su 144 e 12 nella sezione penitenziaria, su 24 totali. Nonostante ciò il governo ha fortemente voluto l’inizio, il prima possibile, del progetto Albania, che sarebbe dovuto partire già prima dell’estate.

Così i primi richiedenti asilo, 5 egiziani e 7 bangladesi, sono adesso segregati in una struttura-cantiere ancora tutta provvisoria. Come d’altronde provvisorio è stato anche il procedimento che li ha portati lì: lo testimonia lo screening in alto mare, che si è verificato fallimentare una volta arrivati in Albania, dove, durante il riconoscimento al porto di Shengjin, due dei sedici migranti sono risultati minori e altri due casi vulnerabili.

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