Albania, appunti lungo la via dell’impero romano
Reportage Da Elbasan a Tirana, la nuova scena culturale albanese, tra fermento e difficoltà. Un romanzo di Tom Kuka; una intervista alla curatrice d'arte Adela Demetja
Reportage Da Elbasan a Tirana, la nuova scena culturale albanese, tra fermento e difficoltà. Un romanzo di Tom Kuka; una intervista alla curatrice d'arte Adela Demetja
Quando il viaggio in Albania comincia da Elbasan anziché da Tirana, la città si può leggerla con un punto di vista sincronico perché Elbasan la si vede com’era, com’è e come sarà. Se a Tirana troviamo una città ormai proiettata nel futuro con un processo di transizione verso l’ordine/disordine capitalista e liberista ormai quasi compiuto, con i palazzi del potere e della nuova borghesia, finanziaria e non, rimessi a lucido e le tante Mercedes, Audi e Wolkswagen dai vetri oscurati che sfilano di notte e di giorno in mezzo al traffico caotico e il Blloku diventato tempio della movida notturna, da grigio quartiere centrale del potere comunista qual era e il vertiginoso affastellarsi di eventi per Tirana Capitale Europea della Gioventù e l’esplosione delle imprese digitali, a Elbasan sembra di attraversare nello stesso tempo il passato, il presente e il futuro dell’Albania. Qui si trova la memoria del passato dell’impero romano con l’antica Via Egnatia e quello ottomano con il castello, la cittadella-Kala, le vecchie case in legno, il dolce tipico ballokume, qualche hijab indossato dalle donne, le preghiere amplificate del muezzin in una città oggi orgogliosa di essere tollerante con le tre religioni dominanti, quella ortodossa, quella cattolica e quella islamica. C’è il passato comunista con il cemento grigio a vista delle architetture urbane, il complesso metallurgico costruito in tempi di grande amicizia fra i governi albanesi e cinesi e ricordato con insolita nostalgia nei versi della poetessa di Elbasan Klejda Plangarica: «Quando colmavo i polmoni con il tuo respiro. E non sono annegata (chi diavolo ha maledetto il tuo respiro?)».
C’è il presente post-comunista con l’euforia consumistica dei centri commerciali, la pletora di merci che strabordano dai negozi e invadono i marciapiedi e i cani randagi che vagano in mezzo al traffico e dormono indisturbati ai rondò delle strade. Qui la transizione è stata più lenta e meno aggressiva.
Il festival di Skampa
E tuttavia, in una Albania dove gli emigrati sono più dei residenti, nella conquista della modernità e nei processi di rigenerazione culturale, Tirana ed Elbasan si fanno una bella concorrenza. Nell’ottobre scorso Elbasan ha sfoderato la XIV edizione del Festival Internazionale Skampa (è Il vecchio nome della città al tempo degli Illiri) con un programma che vedeva in scena insieme ad artisti albanesi di Elbasan e Tirana compagnie da Polonia, Spagna, Kosovo e Italia che ha portato qui, grazie al sostegno del nuovo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Tirana, Alessandro Ruggera, le performance della compagnia Maner Manush di Roma e dell’Accademia Mediterranea dell’Attore con il loro coinvolgente Pupe di pane’.
«In ventiquattro anni di festival sono arrivati a Elbasan più di 2500 artisti da ogni parte del mondo- dice Adonis Filipi, regista e direttore del festival che fa la spola fra Albania e Stati Uniti, persona di grande umanità e grande tessitore di relazioni internazionali. Il contemporaneo è il filo rosso che lega le diverse proposte artistiche e mi piace dare spazio e voce agli artisti che con le loro diverse poetiche ed estetiche esplorano il presente e le sue sfide».
Ed è singolare il legame speciale che tiene unita la città al teatro Skampa ora diretto dal giovane Klinsi Lala e di cui si sono celebrati sessanta anni di attività, tenendo da parte l’interruzione dovuta all’incendio del 2011. Una mostra fotografica nel foyer del teatro ha documentato storicamente il passaggio dal teatro amatoriale al teatro professionale con i cittadini di Elbasan protagonisti e interpreti di una fase importante del teatro e del cinema albanese. Commovente la presenza in sala di attori e attrici come Eduart Çala, Shane Shllaku, Miho Gjini, Spiro Duni, Fatbardh Marku, Dhimitraq Topuzi, Ilmi Belshaku, Arta Luzi che hanno trascorso una vita intera sul palcoscenico di Elbasan. Con tanti sacrifici e immensa passione.
La nuova classe creativa
A Tirana, dalle ceneri del vecchio Teatro Nazionale, abbattuto due anni fa fra tante polemiche, sorgerà a breve, si spera, il nuovo teatro di cui per ora si vedono soltanto i rendering lungo la pedonale a due passi da Piazza Skanderberg. Su quelle pareti provvisorie il pubblico ha potuto ammirare anche una decina di tavole di Shpend Bengu, attento studioso e custode del patrimonio culturale albanese, che hanno fatto parte della mostra itinerante fra Lecce Tirana Atene Dal mare comics festival 2022 promossa dal Polo bibliomuseale di Lecce.
Ma di nuovo c’è soprattutto l’emergere di una comunità attiva nell’industria culturale con tanti giovani che rientrano in Albania dai Paesi dove erano emigrati o che non sono mai emigrati o che fanno del nomadismo il loro stile di vita. Su iniziativa del Sindaco del Comune di Tirana nel marzo 2022 è nata l’Agenzia Creativa per mettere insieme le energie creative della città con un programma ambizioso che prevede la ristrutturazione di due vecchi cinema, l’Agimi e il Maks Velo che diventeranno non solo sale per proiezioni ma veri e propri centri d’arte con mostre, corsi di formazione, spettacoli di teatro. «Nel pieno della crisi pandemica- racconta il giovane direttore dell’Agenzia Jonid Jorgji- molti si sono orientati verso le nuove tecnologie digitali, nella creazione di contenuti nell’ambito del social media management, sviluppo di web, gaming come pure nell’ambito dell’artigianato d’arte e della moda. Alcune di queste imprese come la Papadimitri Production, Skandal Production, Kube Production, EJF Production, On Production hanno creato studi per sostenere la produzione televisiva e cinematografica con attrezzature di ultima generazione. Abbiamo creato con Ilir Butka una sezione Cinema nell’Agenzia per far arrivare qui le produzioni cinematografiche internazionali».
Nuova è l’impresa del «Tirana European Youth Film Festival» (TEYFF) diretto da Elkjana Gjipali che intende limitare il predominio del cinema americano dando più spazio al cinema e alle opere prime prodotte in Europa. Ed entusiasmo sprizza il giovane regista Andamion Murataj che ha portato a termine il film Man of the House ( Burri i Shtepise), una coproduzione fra Albania, Austria Kosovo, Croazia, Macedonia del Nord e Grecia con il supporto di Euroimages e dall’Italia con Palomar e Ministero della Cultura. Il film racconta di due donne, una giovane di 11 anni e una burrnesh (vergine giurata) che sceglie di vivere da uomo prendendosi cura del padre anziano a casa e facendo l’autista di un minibus che collega un piccolo villaggio rurale e Tirana. «La vergine giurata -dice Andamion- connette il mondo rurale e il mondo urbano, è in trans di civiltà, in trans di genere, in trans di tutto, e rappresenta anche il modello per la giovane ragazza che sta cercando di trovare la sua strada nella vita».
Dal 2014 pratiche culturali e visioni artistiche innovative irradia il Tulla Culture Center diretto e fondato da Alban Nimani, artista visivo, performer, musicista nella band Asgje Sikur Dielli e docente di New Media a Pristina. Tavole rotonde, concerti, workshop, performance, mostre sono i campi d’azione privilegiati dove si muove anche la giovane regista teatrale Klaudia Piroli. Ad ottobre gli spazi luminosissimi del Tulla hanno ospitato la mostra fotografica Life in limbo della giornalista tedesca Franziska Tschinderle curata da Adela Demetja: racconta per immagini la strana vicenda di un gruppo di duemila rifugiati afgani arrivati in Albania e accolti nel lussuoso hotel Rafaelo sulle coste albanesi. L’orto urbano sul tetto del Tulla e il festival organizzato nella fortezza di Bashtova nei pressi di Kavaje sono le ultime più ardite imprese realizzate nel segno della innovazione artistica e sociale e della sostenibilità ambientale.
«Flama» di Tom Kuka, una Tirana tra luce e ombre
C’è la pandemia come fenomeno pestifero contagiante a ispirare Flama, l’ultimo romanzo di Tom Kuka, nome d’arte del giornalista albanese Enkel Demi, pubblicato di recente da Besamuci editore, vincitore del Premio Europeo per la letteratura 2021. C’è soprattutto la conferma di un autore e di uno stile che esplorano con inusitata perizia la dimensione magica, rituale e misteriosa delle nostre vite nei suoi sconfinamenti mitici e religiosi. Nonostante i tentativi di rimozione che la modernità persegue e attua, il male con il suo carico di morte, perversione e mostruosità si insinua nelle strade e nelle case di una Tirana maleodorante e superstiziosa, povera e patriarcale del secolo scorso, colpita dalla Flama, la Grande Calamità.
La città è invasa da topi che morsicano corpi sanguinanti che infettano, attraversata dal carretto di Tom Kuka: nel romanzo Tom Kuka è anche il nome del personaggio che trasporta i morti fuori dalla città dopo aver ricoperto di polvere bianca disinfettante ogni traccia epidemica. È dentro la tazzina di caffè con il suo fondo nero che la nana ‘zingara della Riva del Fiume’ trovata con la gola tagliata vedeva e prevedeva storie e destini delle persone. E c’è l’ispettore Di Hima che indaga per scoprire l’assassino della zingara e poi il messaggero nella cui camicia il vento porta le notizie utili agli uomini, il medico Spiro Kutleshi che accoglie gli appestati nel bordello di Tirana trasformato in un ospedale, con generose prostitute che assistono i malati. I morti che appaiono ai vivi in forma di ombre parlanti ma la cui voce non arriva da nessuna parte; c’è soprattutto il vero colpevole, il demoniaco ciclope, che stupra l’adolescente paralitica cui taglia la gola, generando una neonata subito buttata nel fiume Erzen.
Il rapporto fra visibile e invisibile, fra luce e ombra, fra sogno e realtà, fra verità e apparenza, fra peccato e grazia, fra colpa e destino, scorre lungo le pagine del romanzo con le sembianze di un thriller che non si scioglie mai, come ‘la fine di un fiume che non si trova mai’, ma con gli stessi turbamenti e gli stessi enigmi che animano capolavori come Edipo re di Sofocle, La peste di Camus o I Demoni e I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Come aveva già fatto nel precedente L’ora del male (vedi Alias del 24 aprile 2021), Tom Kuka indaga l’identità culturale albanese attraverso la memoria di un mondo magico perduto, con i suoi simboli e sanguinari istinti, con le sue storie e narrazioni.
In quella città di gole tagliate, soprattutto alle donne, in una Tirana vuota e silenziosa che perde la parola e insieme alla parola perde la memoria, abbandonata anche dagli uccelli in fuga, ‘nessuno sapeva dire quando avesse avuto inizio quella storia’ a dimostrazione del fatto che ‘l’umanità non imparava mai da ciò che le capitava’, dimenticava e rimuoveva ogni storia e ogni memoria, disperdendole in tanti rivoli e significati.
Con le sue incursioni nel lontano passato, Flama ci accompagna verso un futuro di consapevolezza, verso una salvezza possibile che può venire dal ‘guarire dentro’, dal recupero di una dimensione interiore e spirituale che esalta il valore generativo e rigenerativo della parola e della scrittura intrinsecamente connessa alla memoria.
Censura, riabilitazione e infine la Biennale: intervista a Adela Demetja, che ha curato il padiglione albanese a Venezia
Adela Demetja (1984) vive fra Tirana e Berlino, curatrice e scrittrice con studi all’Accademia delle Arti di Tirana e studi curatoriali alla Städelschule e Università Goethe di Francoforte. È direttrice del Tirana Art Lab – Centro indipendente d’arte contemporanea. Ha curato mostre al Maxim Gorki Theatre di Berlino, Institute for Contemporary Art di Portland, Project Biennale D-0 Ark Underground Konjic, Action Field Kodra Thessaloniki, Lothringer 13 Kunsthalle Munich, Villa Romana in Firenze, Haus am Lützowplatz a Berlino. Per la Biennale d’arte 2022 di Venezia ha curato il Padiglione Albania con la mostra Lumturi Blloshmi. From scratch.
Quale spazio, istituzionale o indipendente, si è conquistato l’arte contemporanea nella società albanese?
Appartengo a una generazione di artisti che da venti anni sta facendo cose significative (Kostandini, Alketa Ramaj, Olson Lamaj, Matilda Odobashi, Irgin Sena), siamo cresciuti nel tempo della Tirana Biennale spettacolo aperta nel 1999, che ha messo l’Albania sulla mappa dell’arte contemporanea. Noi non conoscevamo nessuno degli artisti contemporanei (Allora & Calzadilla, Maurizio Cattelan, Phil Collins, Rirkrit Tiravanija, Vanessa Beecroft, Shirin Neshat, etc), moltissimi venivano da fuori. Qui si poteva studiare all’Accademia delle Arti ma mancava un insegnamento di Storia dell’arte, di filosofia dell’arte e del cultural management, così io sono andata a studiare in Germania cultural management e studi curatoriali. Da quel momento tanti artisti hanno cominciato a fare i curatori e gli organizzatori hanno aperto centri indipendenti (TICA, 1/60 insurgent space, Zeta Gallery, Miza Gallery, Tirana Express).
La scena indipendente dell’arte è stata più forte di quella istituzionale che non aveva gente adatta per fare un cambiamento. Quando ho aperto nel 2010 Tirana Art Lab, volevo dare la possibilità ai giovani di sperimentare e produrre in maniera indipendente. Allora non c’era niente, adesso per fortuna c’è qualche bando e qualche piccola risorsa. Con Tirana Art Lab e grazie al progetto Double Feature abbiamo cominciato a far lavorare artisti albanesi con artisti balcanici e internazionali, come Alba Makjai e Viola Bittl, Donika Cina e Hanna Hildebrand. Ci siamo dati il compito di far vedere un’arte impegnata che riflette sui problemi sociali e politici; non facciamo spettacolo ma resistenza, ci siamo collegati a una tradizione di attivismo artistico degli anni novanta e duemila; la realtà stava cambiando molto, le istituzioni non erano forti, i cittadini rivendicavano diritti. Artisti come Sokol Peci, Nikolin Bujari, Pleurad Xhafa sentivano di dover prendere posizioni critiche. Ora viviamo in uno stato di crisi permanente, per guadagnarsi da vivere gli artisti fanno altro, tanti si rifugiano in una dimensione interiore della vita e tanti lasciano l’Albania.
Alla Biennale di Venezia ci hai sorpreso facendoci conoscere Lumturi Blloshmi. Chi era?
Vissuta in una famiglia di perseguitati politici perché il padre di Blloshmi era un ufficiale del governo di re Zog I, Lumturi era diventata sordomuta da bambina a causa di una meningite. Capiva le parole attraverso i movimenti labiali degli altri. Aveva una personalità difficile ma di grande energia, ha passato la sua vita da artista solitaria a sperimentare e dipingere, ogni giorno, soprattutto autoritratti. Non sposata e senza figli. In pieno regime comunista, venne espulsa dall’associazione nazionale degli artisti albanesi che le impedì persino di esercitare il mestiere. Solo nel 1988 a 44 anni riuscì a fare la prima mostra personale a Tirana.
Come hai progettato la mostra su di lei?
È stata una esperienza di vita unica, un’avventura vera e propria. Ci eravamo convinte a preparare insieme la mostra per Venezia, lei meritava questa opportunità. Abbiamo cominciato un processo di documentazione di tutte le sue opere e a novembre del 2020 dopo tre settimane di malattia è morta in ospedale per le complicazioni da Covid. Grazie alla collaborazione dei parenti, sono riuscita a concepire la presentazione e portare Lumturi a Venezia. Ho progettato la mostra su tre sottotemi e con tre dispositivi approfondendo il suo rapporto con se stessa, il rapporto con la realtà albanese e il rapporto con l’universale e, cosi come lavorava Lumturi, ci sono le sue opere di pittura, la fotografia e l’installazione, l’archivio virtuale inteso come personal geography. Il concetto ‘from crash’ che ho usato nel titolo voleva dire un nuovo inizio per lei che non c’era più, che le sue opere vanno verso il futuro, come la vita che scorre sempre avanti.
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