Alain Tanner aveva novantadue anni. Il suo cinema circa sessanta. Era nato a Ginevra. Il luogo prediletto dei suoi film non sono state le Alpi svizzere ma i porti mediterranei. Come molti della sua generazione, era diventato cineasta attraverso la cinefilia, e cinefilo per sfuggire alla società. Non era un rifiuto del mondo in quanto tale. Tanner era un viaggiatore. A diciassette anni, con un po’ di denaro racimolato lavorando alla posta, compie un difficile viaggio attraverso il Sahara. Si diploma poi in diritto mercantile, sempre nella prospettiva di viaggiare. A ventitré anni lo troviamo su un cargo con un incarico amministrativo. Il suo cinema ritornerà in più occasioni su questa esperienza marittima, sia col documentario che con la finzione.

SBARCATO in Inghilterra per imparare l’inglese, conosce Lindsay Anderson che gli trova un lavoro alla cineteca e gli presenta gli altri ragazzi del nascente «Free cinema»: Karel Reisz e Tony Richardson. In questo movimento Tanner si riconosce immediatamente: sia nella collera della rivolta giovanile, che nel desiderio di liberare il cinema dalle certezze borghesi e di farvi entrare nuovi soggetti sociali e politici. È in Inghilterra che gira il suo primo cortometraggio: Night time (1957).
Nel 1958 gli viene rifiutato il permesso di soggiorno. Decide allora di trasferirsi in Francia, esattamente nel momento in cui la Nouvelle vague sta per conquistare il grande schermo. Tanner entra in contatto con il gruppo dei critici e futuri cineasti della Nouvelle Vague. Scrive un pezzo per i «Cahiers du cinéma» sul Nuovo cinema inglese, mentre lavora qui e là come assistente. Ma non ritrova con i Giovani turchi dei «Cahiers» l’affinità provata con il Free cinema. Ha invece l’impressione di essere capitato tra «anarchici di destra».In «Charles mort ou vif» un industriale rifiuta il suo destino e viene richiuso in clinica psichiatricaDecide allora di tornare in Svizzera e lavorare per la televisione, aspetta poi dieci anni per girare il suo primo lungometraggio, il film che lo rende noto al pubblico: Charles mort ou vif. Scrive la sceneggiatura durante il giugno 1968, dopo aver passato tutto il maggio a Parigi a seguire gli eventi per la televisione. Non si illude che si tratti di una rivoluzione politica. Ma aderisce totalmente allo spirito del 1968, al suo vento di liberazione ed emancipazione. Fino all’ultimo, il suo cinema resterà fedele a questa esperienza, interrogando il presente e il futuro con la cartina al tornasole di quel grande momento di svolta come in Jonas, che avrà vent’anni nel 2000, scritto con John Berger (1976 – il titolo originale era Jonas qui aura 25 ans en l’an 2000) e il seguito, Jonas et Lilà, à demain (1999).
La storia di Charles mort ou vif è quella di un uomo borghese svizzero che di punto in bianco rifiuta di seguire il suo destino di industriale degli orologi, sparisce per poi essere ritrovato e inviato dalla famiglia in una clinica psichiatrica. Fatto con «due franchi e tre lacci per le scarpe», Charles mort ou vif viene selezionato alla Settimana della critica a Cannes e ottiene il Grand prix al festival di Locarno.

IL RESTO della sua carriera è frutto delle sue convinzioni di fondo che non cambiano, dell’amore improvviso per dei soggetti, sempre molto personali, o del caso. Un giorno a Cannes incontra il celebre produttore Paulo Branco che gli propone di venire a girare un film in Portogallo. Lui ci pensa e risponde: accetto a due condizioni, giro senza sceneggiatura e voglio che l’attore principale sia Bruno Ganz. L’idea è quella di un marinaio che abbandona la propria nave e sbarca a Lisbona. Il risultato è Dans la ville blanche (1983).
Alcuni anni dopo gira un film su Genova (Les Hommes du port, 1995), la città conosciuta da giovane come marinaio. Il film è un documentario tenuto insieme da un filo di finzione autobiografica o da una vena sentimentale: l’amore che Tanner aveva per i marinai, per il proletariato portuale, e per il mare.

UN SUO MANIFESTO poetico è contenuto nelle prime immagini di La Salamandre (1971) dove la voce off recita: «Paul abitava quel posto sperduto non per amore della natura, sebbene ne amasse la tranquillità, ma perché vi aveva trovato una casa per soli 100 franchi al mese. Era all’estremo ovest del paese, a due passi della frontiera, e la Svizzera sembra già lontana. Gli voltavamo la schiena. Dall’altra parte di questa terra di nessuno c’era la Francia. Un Paese in cui non si sa mai cosa succede da un anno all’altro, o persino da un mese all’altro». In questa confessione d’un apolide, c’è un’ideale: l’idea di istallarsi tra due mondi, senza appartenere a nessuna patria. È chiaro che il mare – come luogo infinitamente in movimento – in questo senso era la sua terra ideale, la sua utopia e l’immagine latente di tutto il suo cinema.