Al voto nel nome dell’ex marito
Seggio di Milano zona nove, domenica mattina, cielo azzurro, aria fresca, strade vuote, come la sezione dove voto. Ci sono solo gli scrutatori, due uomini sui 30 anni, una donna sui 70, la presidente fra i 40 e i 50. Consegno i documenti, lo scrutatore cerca il mio nome sull’elenco degli elettori e toh, sono registrata come «Mariangela Mianiti in…» segue il cognome di mio marito. Io, che raramente riesco a stare zitta, dico all’incolpevole ragazzo: «Ancora mettono il cognome del marito? Ma perché?».
Non faccio in tempo a finire la frase che la presidente, seduta alla cattedra, esclama.
«Pensi che anch’io ce l’ho ancora sebbene sia separata da dieci anni. Sono andata all’ufficio elettorale per farlo togliere, ma mi hanno detto che non si può. Secondo me non ne avevano voglia. Perché mi devo tenere il cognome di uno con cui, fra l’altro, non vivo più? È una cosa che mi dà molto, ma molto fastidio».
«Ah – aggiunge la scrutatrice settantenne – io mi sono sposata nel 1977 e il nome di mio marito non c’è mai stato accanto al mio».
Mentre i due maschi della sezione stanno zitti, noi tre ci lanciamo in svariate ipotesi. Dipenderà dal funzionario che trovi? Dal periodo storico-politico in cui hai maturato il diritto al voto o ti sei sposata? Dai fluidi machisti che serpeggiano nei corridoi delle istituzioni? Da qualcuno che interpreta leggi e decreti a birillo? Non abbiamo trovato risposta.
Il garbuglio normativo lo spiega bene la costituzionalista Roberta Laganà in un articolo pubblicato su AIC, Associazione Italiana dei Costituzionalisti. L’art. 4 della legge n. 1058 del 1947, entrato in vigore prima della Carta costituzionale e mai abrogato, stabilisce che nelle liste elettorali la donna sia identificata anche con il cognome del marito. Queste liste sono ancora usate per identificare le elettrici residenti all’estero e c’era una ragione.
In certi Paesi, compresa la Svizzera dove vivo, per molto tempo si è dato per scontato che una donna, sposandosi, assumesse il cognome del coniuge. Se, di conseguenza, un ufficio italiano la voleva trovare, doveva cercarla con il cognome da sposata. Ma allora perché questa norma si applica anche alle italiane residenti in Italia? E perché, prima di decidere, non si chiede alla diretta interessata cosa preferisce?
Laganà spiega che nel 1999, con la legge n.120, e nel 2000, con un decreto del presidente della Repubblica, il certificato di iscrizione nelle liste elettorali è stato sostituito con la tessera elettorale che deve contenere i dati anagrafici senza riferimenti al cognome del marito. Tuttavia, la legge dice anche che «per le donne coniugate il cognome può essere seguito da quello del marito».
In quel «può» sta la coda del diavolo, la discrezionalità interpretativa, il ghiribizzo del funzionario di turno e questo spiega anche perché in certi comuni si fa in un modo e in altri in un altro, perché in certi anni il cognome del marito compare e in altri scompare. Cambia il titolare dell’ufficio elettorale e ti puoi ritrovare da Maria Rossi a Maria Rossi in Bianchi, così, solo perché uno si è incarognito su quel «può» e ha deciso di cambiarti il nome senza chiedere niente a te e nemmeno a lui.
E qui arriviamo alla cosa grave come quella successa alla presidente della mia sezione elettorale. Con che diritto un ufficio si permette di negare una richiesta, riconosciuta dalla legge, di una cittadina? E come è possibile che questo avvenga nella moderna ed efficiente Milano?
Care compagne di cognome imposto, andate a rompere le scatole, citate leggi e decreti, protestate. Sposate forse, zitte mai.
mariangela.mianiti@gmail.com
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