Le forze di sicurezza egiziane in piazza Rabaa hanno sparato munizioni vere in modo casuale ed eccessivo, ignorando deliberatamente le soluzioni pacifiche per risolvere il conflitto e provocando un alto numero di morti, la maggior parte dei quali manifestanti disarmati. Lo dice un rapporto inedito della commissione statale d’inchiesta trapelato questa settimana.

La commissione, composta per lo più da giudici, è stata costituita nel dicembre 2013, quattro mesi dopo il più grande massacro nella storia dell’Egitto moderno. Il suo rapporto finale è stato presentato al presidente al-Sisi nel novembre 2014, ma non ha mai visto la luce. Nel decimo anniversario del massacro, l’Egyptian Initiative for Personal Rights, un’organizzazione locale di vigilanza sui diritti, ha ottenuto e diffuso online il rapporto.

I DETTAGLI STRAZIANTI del massacro erano già stati documentati da organizzazioni internazionali, come Human Rights Watch, che ha stimato almeno 817 vittime. Altre stime si aggirano sulle migliaia. Il livello di violenza esibito da polizia ed esercito quel giorno ha lasciato perplessi gli osservatori, che si sono sempre chiesti perché Abdel Fattah al-Sisi avesse scatenato quel bagno di sangue.

L’ex presidente Hosni Mubarak era un autocrate che governava l’Egitto con il pugno di ferro, ma il suo approccio alla governance dipendeva dalla gestione del dissenso. Una vivace società civile faceva da cuscinetto tra Stato e cittadini. Il controllo del dissenso era affidato a un’ampia gamma di istituzioni civili, non solo ai servizi di sicurezza.

È vero, queste istituzioni erano già parzialmente smantellate e non erano potenti come quelle create dal fondatore della repubblica degli ufficiali, Gamal Abdel Nasser, ma erano ancora efficaci nel proteggere lo Stato da minacce esistenziali.

Se si verificavano atrocità in Palestina, Mubarak poteva contare sui Fratelli musulmani per disinnescare la rabbia popolare, organizzando proteste anti-Israele che si limitavano a moschee e campus universitari, piuttosto che riversarsi nelle strade contro la complicità di Mubarak.

Se i prezzi dei beni di prima necessità aumentavano, poteva contare sui salafiti per distogliere la rabbia dal regime incolpando donne non velate o cristiani. Se i lavoratori si mobilitavano, poteva contare sui sindacati sostenuti dallo Stato per contrastare la militanza nei luoghi di lavoro.

INOLTRE, C’ERA il Partito nazionale democratico al potere, poco ideologico e privo di denti rispetto all’Unione socialista araba di Nasser. Eppure era presente in ogni quartiere d’Egitto per imporre l’egemonia dello Stato, risolvere potenziali conflitti e convogliare le rimostranze locali verso i responsabili del regime. In altre parole, esisteva una complessa rete di istituzioni da cui Mubarak poteva dipendere per gestire il dissenso, prima di pensare di inviare le truppe o la sua temuta polizia di sicurezza statale per reprimere i facinorosi.

La violenza di Stato sotto Mubarak era per lo più calcolata, corrispondente al livello di minaccia percepito per il regime. La sua macchina propagandistica cercò in tutti i modi di nascondere qualsiasi abuso, dalla negazione alla disinformazione. Questo calcolo perverso della repressione ha permesso a Mubarak di prosperare per tre decenni.

Ma agli occhi di al-Sisi e dei suoi generali, questo è stato esattamente ciò che alla fine ha portato alla sua caduta e allo scoppio della rivoluzione del 2011. Al-Sisi e la maggior parte degli ufficiali che hanno guidato il golpe del 2013 si sono diplomati all’università militare dopo la fine della guerra del 1973, salendo di grado in tempi di «pace». L’esercito egiziano era ormai diventato un’organizzazione burocratica gonfiata, ossessionata dalla stabilità interna e dal profitto.

AGLI OCCHI dell’esercito, la rivoluzione è avvenuta perché Mubarak era «troppo indulgente». L’esperienza della transizione del 2011-13 ha contribuito a rafforzare questa convinzione. Il patto faustiano dei generali con gli islamisti – disinnescare la rivoluzione in cambio dell’ingresso di questi ultimi nella coalizione di governo – non è andato a buon fine.

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Solo nel 2012, l’Egyptian Center for Economic and Social Rights ha registrato più di 3.800 azioni nelle fabbriche e mobilitazioni sociali, più del numero totale di proteste nel decennio 2000-2010. L’Egitto era diventato ingovernabile e i generali hanno deciso di pacificarlo con la forza una volta per tutte per salvare lo Stato dal «caos» o, peggio, da una nuova rivoluzione che avrebbe potuto minacciare i loro privilegi.

Il bilancio delle vittime di un solo giorno, il 14 agosto 2013, è stato quasi pari al numero di morti durante la repressione degli anni ’90 sotto Mubarak. Nei primi sette mesi dopo il golpe di Sisi, la violenza di Stato ha causato più di 3.200 morti.

LA PORTATA dello spargimento di sangue di Rabaa e dei massacri successivi è stato un chiaro messaggio dei generali alla nazione: l’azione collettiva indipendente non è né gradita né ammissibile. Se il Paese aveva assistito a più di 4.500 proteste nei primi sei mesi del 2013, il numero è crollato a 665 negli ultimi sei mesi dell’anno.

Oggi al-Sisi presiede una società priva di ammortizzatori: partiti di opposizione azzoppati, un parlamento che non fa altro che timbrare il cartellino, nessun partito ufficiale al governo e nessuna istituzione civile con poteri di governo. Al contrario, gli apparati repressivi (esercito, polizia e servizi segreti) impongono un dominio diretto, microgestendo la società su base quotidiana.
AL-SISI non gestisce il dissenso, lo sradica. Rabaa non è stato solo un massacro: è stato il contratto sociale fondante della nuova repubblica di al-Sisi.