Succede ogni anno in occasione del Ramadan, come nella giornata dedicata alle forze armate: in Egitto il presidente concede la grazia a decine di prigionieri. Stavolta, evento piuttosto raro, pena estinta a 41 prigionieri politici, non semplici detenuti. Tutti però dietro le sbarre in detenzione preventiva, dunque in attesa di processo.

Ad annunciarlo domenica è stato Mohamed al-Sadat, leader politico e nipote dell’ex presidente Anwar, che dei rilasci è stato ufficioso negoziatore: sono stati rilasciati «41 di coloro che sono in detenzione cautelare per reati politici e accuse legate alla libertà di pensiero e di espressione».

Ha poi parlato di riforme in arrivo per favorire i rilasci, nell’ambito del lavoro del comitato presidenziale per la grazia. Solo il tempo dirà se si tratta di una reale svolta o solo di make-up sul volto brutale del regime.

Tra i 41, ha rivelato il noto avvocato Khaled Ali (da sempre difensore di attivisti e giornalisti e lui stesso ex prigioniero), ci sono il giornalista Mohamed Salah, il ricercatore Abdo Fayed, il membro del partito Dostor, Hassan al-Barabari, il sindacalista Haitham al-Banna e l’attivista Walid Shawky, oltre a Rawda Mohamed, arrestata nel 2019 durante una protesta che chiedeva le dimissioni del presidente al-Sisi.

Ad accomunarli l’accusa, «appartenenza a organizzazione terroristica e diffusione di notizie false», reato standard con cui il regime detiene buona parte di quei 60-100mila prigionieri politici stimati, previsto dalla legge anti-terrorismo modificata da al-Sisi nel 2014, appena eletto alla presidenza.

È lui che ha apposto la firma sugli ordini di rilascio. Come è lui che ha approvato la costruzione di nuove carceri nel paese. Dal golpe del 2013 le prigioni sono sorte come funghi, dopotutto devono contenere un numero di prigionieri politici dieci volte più grande della media della dittatura Mubarak. Da allora ne sono state costruite già 27, un terzo delle 79 totali.

E se quella di Wadi al-Natrun, a Beheria, a centinaia di km dal Cairo (per rendere più tortuose e dunque meno frequenti le visite familiari), ha aperto in sordina con il trasferimento, a marzo, di circa 500 prigioniere all’insaputa di legali e famiglie, a metà aprile l’agenzia indipendente Mada Masr ha dato notizia di un altro progetto in fieri: il ministero degli interni sta costruendo, attraverso una compagnia legata alle forze armate, un nuovo complesso penitenziario nell’area di al-Jafjafah, nel Sinai, regione devastata dalla lotta ai gruppi islamisti attivi nella penisola. Il nuovo polo conterrà due carceri di massima sicurezza e quattro prigioni normali, per una capacità totale di 20.064 detenuti. Per realizzarla sono stati confiscati ettari ed ettari di fattorie.

Inaugurazioni che rientrano nel piano annunciato lo scorso settembre dal governo egiziano: un nuovo istituto penitenziario «in stile americano» (Wadi al-Natrun, appunto), a cui ne seguiranno «altri sette e otto», dove i detenuti possano godere di migliori condizioni di detenzione. Una farsa, in un paese che è una prigione a cielo aperto, mentre dentro le celle reali, di cemento, si vive ammassati uno sull’altro, in condizioni igieniche pessime e una quotidianità di atroci torture.