«Cosa importa se muori», un viaggio nell’incubo delle prigioni egiziane
Egitto L'ultimo rapporto di Amnesty International: per i detenuti politici celle sovraffollate e sporche, assenza di cure mediche e pestaggi. Una forma di tortura volutamente coltivata dal regime
Egitto L'ultimo rapporto di Amnesty International: per i detenuti politici celle sovraffollate e sporche, assenza di cure mediche e pestaggi. Una forma di tortura volutamente coltivata dal regime
Come da tradizione, lunedì, giornata nazionale della polizia, il presidente al-Sisi ha graziato migliaia di detenuti. Ieri il ministero dell’interno ha dato i numeri: 3.022 i prigionieri tornati a casa domenica. Saranno sottoposti a cinque anni di sorveglienza speciale.
Tra loro non ci sono prigionieri politici, o meglio non ci sono condannati per «terrorismo», categorie che nell’Egitto post-golpe spesso coincidono: è tramite la legge anti-terrorismo che dal 2013 le carceri si sono riempite (si stima) di 60mila detenuti per ragioni politiche. Tanto piene da costringere a costruirne un’altra decina, senza tuttavia risolvere il problema enorme dell’affollamento. Che è di per sé una forma di tortura.
Lo spiega bene l’ultimo rapporto di Amnesty International dedicato alle carceri egiziane, alla carenza voluta di assistenza medica, alle condizioni disumane delle celle, piccole, senza aerazione sufficiente, buie e umide.
Condizioni talmente pessime da aver condotto in troppi casi alla morte dei detenuti: tra gli ultimi in ordine di tempo c’è il decesso del regista e fotografo Shady Habash, lo scorso maggio (24 anni, da due nel carcere di massima sicurezza di Tora, era stato arrestato per il video della canzone Balaha); e quello del noto giornalista Mohamed Monir, arrestato con l’accusa di aver diffuso notizie false, e morto per Covid-19 a luglio.
«Cosa mi importa se muori?» è il titolo scelto dall’organizzazione internazionale per il rapporto dedicato alle prigioni. Un viaggio nell’incubo, raccontato in questi anni da chi esce, dopo anni di detenzione preventiva o condanne in processi di massa: prigionieri privati di tutto, costretti a farsi acquistare dalle famiglie cibo e sapone e a dire addio a cure mediche di base e spesso alle visite familiari, di fatto messe al bando con la scusa del Covid-19.
«È deplorevole che le autorità egiziane cerchino di intimidire e tormentare difensori di diritti umani, politici, attivisti, oppositori veri e presunti negando le cure mediche», si legge nel rapporto, basato sulle testimonianze e le storie di 67 detenuti sparsi in tre carceri femminili e 13 maschili. Di loro dieci sono morti in cella, altri due appena usciti.
Storie che Amnesty ha presentato al governo egiziano lo scorso dicembre senza ricevere risposta. Dopotutto, aggiunge il direttore di Ai per Medio Oriente e Nord Africa, Philip Luther, «c’è la prova che le autorità carcerarie, citando gli ordini giunti dalla National Security, prendono di mira determinati prigionieri e li puniscono», con isolamenti prolungati (l’ex candidato presidenziale Aboulfotoh è isolato da tre anni), divieto alle visite familiari fino a 4 anni o a ricevere da fuori cibo e medicine.
Al resto pensa una sanità inesistente: infermerie sporche, senza medicinali se non antidolorifici, dove si arriva solo se una guardia decide che si è abbastanza meritevoli. Così si muore in prigione: secondo Amnesty, è successo centinaia di volte dal 2013. E chi protesta, rifiutando il cibo, viene picchiato selvaggiamente.
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