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Al-Sisi contro Ban Ki-moon: «Nessuna intromissione»

Al-Sisi contro Ban Ki-moon: «Nessuna intromissione»Il presidente egiziano al-Sisi – Reuters

Egitto L'Onu chiede processi equi per gli attivisti, il Ministero degli Esteri va all'attacco. Kerry in visita dal presidente non parla di abusi di diritti umani, mentre due parlamentari italiani vanno in tv per sostenere la tesi del complotto sul caso Regeni

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 21 aprile 2016

L’Egitto, che da gennaio occupa una delle poltrone da membro non permanente del Consiglio di Sicurezza, imbarazza le Nazioni Unite. Ieri il Ministero degli Esteri ha mirato direttamente contro il segretario generale Ban Ki-moon, dopo la richiesta di un processo equo per due noti attivisti egiziani, Gamal Eid e Hossam Bahgat.

I due (il primo direttore dell’Arabic Network for Human Rights Information, il secondo giornalista investigativo dell’agenzia indipendente Mada Masr e fondatore dell’Egyptian Initiative for Personal Rights) sono accusati di aver ricevuto fondi illegali dall’estero con l’obiettivo di indebolire il governo egiziano.

Il portavoce del Ministero Abu Zeid ha accusato Ban Ki-moon di voler «intimidire la magistratura egiziana, influenzarne il lavoro» e, in definitiva, di impicciarsi negli affari interni. È la risposta al segretario generale Onu che martedì aveva fatto sapere di «seguire da vicino» i processi contro le ong, chiesto che i due imputati potessero «godere di standard processuali equi» e espresso preoccupazione per la chiusura di centinaia di associazioni e le inchieste su decine di attivisti.

Il caso di Eid e Bahgat è parte di una campagna ben più ampia contro la società civile basata sulla legge anti-terrorismo promossa da al-Sisi: congelamento dei fondi delle ong, divieti di lasciare il paese e processi per tentato golpe.

E al Palazzo di Vetro Il Cairo mostra i muscoli e sfrutta al meglio la propria posizione. A maggio l’Egitto – da presidente del Consiglio di Sicurezza – intende lanciare un dibattito sulla lotta al terrorismo: come riporta il think tank Foreign Policy, diplomatici occidentali non nascondono il sospetto che la mossa sia volta ad individuare la copertura necessaria a proseguire nella repressione della libertà di espressione sul territorio nazionale. Per aprirsi la strada, Il Cairo colpisce bocciando o indebolendo risoluzioni sulle crisi altrui: quella sul dispiegamento di caschi blu in Burundi o quella sull’embargo alle parti in conflitto in Sud Sudan.

Un comportamento che non passa inosservato negli Stati Uniti: «La repressione contro islamisti, media indipedenti e società civile rivelano un governo profondamente a disagio non solo con il dissenso ma con ogni attività che non può direttamente controllare», ha detto pochi giorni fa l’ambasciatrice Usa alle Nazioni Unite Samantha Power.

Ma Washington non può privarsi di un alleato strategico in un mondo arabo in fermento. Ieri il segretario di Stato Kerry ha fatto visita ad al-Sisi e al ministro degli Esteri Shoukry. Nessuna conferenza stampa congiunta a causa – ha detto Il Cairo – «dei tempi stretti». Kerry è ripartito poco dopo, diretto in Arabia Saudita dove raggiungerà il presidente Obama. Poche ore in cui i due hanno discusso di questioni regionali: «Ripartirò dal Cairo con nuove idee su come lavorare insieme per rinvigorire l’economia, attrarre investimenti, creare lavoro e affrontare l’Isis – ha scritto in un comunicato stampa il segretario di Stato – L’Egitto è cruciale alla pace e la sicurezza dell’intera regione ed noi siamo profondamente impegnati a stabilizzare il paese».

«Abbiamo parlato di politica, Siria, Libia e dei modi in cui risolvere alcune differenze e questioni riguardo la politica interna e le scelte del popolo egiziano». Così, con “questioni di politica interna”, Washington si defila. Nessun accenno alle pratiche istituzionalizzate di uno Stato di polizia, nessuna parola su Giulio Regeni su cui, volenti o nolenti, i leader europei sono stati costretti a dire almeno due parole.

Chi parla sono due parlamentari italiani alla tv egiziana El Balad. Lucio Barani, verdiniano, e Francesco Amoruso, Forza Italia, hanno pensato di farsi portavoce dell’Italia andando a riferire al governo egiziano che Roma è certa che dietro la morte di Giulio non ci siano le autorità egiziane. Amoruso e Barani abbracciano in toto la versione del presidente al-Sisi: un complotto internazionale di soggetti stranieri che vogliono attribuire la responsabilità di quell’omicidio alla sicurezza interna egiziana per scalzare l’Eni e le compagnie italiane dal paese.

Per questo, aggiungono, «comprendiamo il rifiuto dell’Egitto a fornire milioni di tabulati telefonici agli inquirenti italiani. Quanto successo a Regeni è una tragedia, ma ha obiettivi politici ed economici e ci rendiamo perfettamente conto che il presidente al-Sisi non è coinvolto». Commenti preoccupanti che fanno il paio con il silenzio delle istituzioni italiane.

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