Al Mondiale mediorientale, attenzione ai Samurai blu
Eurocentrici come siamo, apprezziamo solo il calcio giocato in Europa. Ai fini del titolo mondiale, percepiamo l’insidia del Brasile e dell’Argentina. Guardiamo dall’alto in basso il football giocato in altri continenti, come l’Asia, ai mondiali che iniziano domani rappresentata da Giappone, Corea del Sud, Iran, Arabia Saudita e il Qatar come Paese ospitante. Alcuni allenatori italiani hanno guidato nazionali asiatiche, lasciando il segno. La sorpresa potrebbe essere il Giappone, che nella rosa dei 26 calciatori ben 20 giocano in Europa, addirittura nel Sint-Truiden, serie A belga, cinque titolari sono giapponesi.
Ne parliamo con Romano Mattè, stretto collaboratore di Marcello Lippi alla Juventus, oltre che allenatore di squadre come il Livorno, la Salernitana, l’Avellino. Trenta anni fa fu tra i primi ad allenare in Asia, alla guida della nazionale dell’Indonesia dal 1992 al 1995. Ha allenato anche la nazionale del Mali. Quell’esperienza è oggi raccolta nel libro L’allenatore dei tre mondi (Edizioni Zerotre). Lo incontriamo a Verona a margine di un convegno dedicato a Gianni Mura.
Come sei arrivato in Indonesia?
Ero il vice di Sven Eriksson alla Sampdoria, all’inizio degli anni ‘90, ma collaboravo con la società già da qualche anno come osservatore tecnico. Fui io a inviare alla società le relazioni tecniche quando si trattò di acquistare i giovani Mancini, Vialli, Pagliuca. Dopo la chiusura delle centrali nucleari in Italia, Paolo Mantovani, petroliere e presidente della Sampdoria allacciò stretti rapporti d’affari con il petroliere indonesiano Nirwan Bakrij, rampollo di una delle famiglie più ricche al mondo, principale sponsor della Federcalcio dell’Indonesia, nonché proprietario del Pelita Java, la più forte squadra del Paese. Nirwan Bakrij chiese a Mantovani un allenatore italiano che alzasse il livello del calcio indonesiano e il presidente della Sampdoria fece il mio nome. Cominciai con la nazionale under 21, che si stabilì nel centro sportivo di Tavarone, in provincia di La Spezia a spese di Bakrij. La under 21 indonesiana partecipò fuori classifica, unico esperimento realizzato in Italia, al campionato Primavera riservato alle squadre giovanili delle compagini di serie A. Battemmo la Primavera della Juve, del Milan, del Bologna e del Parma. Quell’anno ci piazzammo terzi, anche se i nostri punti non valevano ai fini della classifica. Alcuni di quei giovani calciatori come l’attaccante Kourniawan, il portiere Kourniasandi, il libero Eko e il regista Bima Sakti vissero belle esperienze in squadre professionistiche europee. Tutta la stampa indonesiana parlò dei nostri risultati in termini entusiasti. Partecipammo anche ai Giochi panasiatici, disputatisi nello Sri Lanka, che dominammo fino alla fine, purtroppo un arbitro corrotto assegnò un rigore alla squadra avversaria che ci escluse dalla finale. Il tifo in Indonesia impazzava, arrivò la proposta di allenare la nazionale maggiore e contemporaneamente il Pelita Java che quell’anno sotto la mia guida vinse lo scudetto. Cominciai a girare tra le centinaia di isole dell’arcipelago indonesiano, da Sumatra a Kalimantan fino alla nuova Guinea occidentale, per selezionare i calciatori per la rappresentativa nazionale.
Che cosa ti colpì appena arrivato in Indonesia?
Trovai una sorprendente apertura al nuovo. Presentai a Giacarta un progetto di fondazione di un’ Accademia del calcio sul modello di Coverciano per la formazione degli allenatori. In Indonesia non avevano il benché minimo senso della tattica, quando cominciarono ad acquisirlo arrivarono i risultati. Giocavamo e vincevamo, dal Giappone arrivarono a studiare i nostri allenamenti, la notizia suscitò un certo orgoglio tra gli indonesiani, che hanno un vero culto verso i giapponesi a causa della loro capacità di produrre tecnologia avanzata. La Federcalcio nipponica mi propose di allenare la nazionale, firmai anche un precontratto, purtroppo le condizioni di salute di mia moglie si aggravarono e questo mi costrinse a rientrare precipitosamente in Italia. Proposi loro di prendere Alberto Zaccheroni, che in Giappone alla guida della nazionale ottenne ottimi risultati.
Sul piano sociale che Paese hai trovato?
Erano gli anni della dittatura di Shuarto. L’ Indonesia nella sua storia ha avuto tre dominazioni: buddista, indù e musulmana. Oggi prevale la cultura indù, si professa un Islam moderato di rito sufita. Ho studiato la storia dell’Indonesia e anche la loro lingua per capire con chi avevo a che fare, dai ragazzi ai dirigenti della Federazione calcio indonesiana. I primi tempi sono rimasto colpito dalla loro mitezza, dalla loro dolcezza e dalla loro disponibilità, avevano sempre il sorriso.
Il calcio asiatico come si presentava nel suo complesso?
I croati allenavano in Cina, erano allenatori seri, mentre la nazionale cinese era in perenne ritiro, tutto l’anno. La Cina si è giovata molto della scuola europea, compresi gli italiani che sono arrivati dopo, Marcello Lippi, Fabio Cannavaro. Il Vietnam aveva allenatori cubani, che in generale guidavano tutto il calcio della penisola indocinese, tranne la Thailandia che giocava il calcio migliore di tutti, perché aveva buoni allenatori. I cubani curavano solo la fisicità, mentre erano a digiuno di tattica. In India il calcio è a livelli bassi, una volta vincemmo 6-0. Oggi il calcio in Indonesia è precipitato nel baratro, è quasi scomparso.La Corea del Sud esprime un calcio da guerrieri, corrono sempre, sono instancabili, ma i veri samurai sono i giapponesi. Quando a Giakarta si sono svolti i Giochi Asiatici e io partecipai con la nazionale under 21 dell’Indonesia mi sono reso conto che i giapponesi davano l’anima, giocavano con una durezza e una determinazione che gli indonesiani non avevano.
Tra le squadre asiatiche ai mondiali in Qatar, quale potrebbe essere la sorpresa?
Il Giappone è cresciuto molto negli ultimi anni, grazie anche alla scuola italiana con Zaccheroni e Ficcadenti. Non bisogna sottovalutare l’Iran.
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