Il summit dei ministri degli Esteri di Bali è una prova generale per la presidenza indonesiana del G20 il cui summit tra capi di Stato e di governo di terrà a novembre. Per ora, dicono gli analisti dell’arcipelago più popoloso del pianeta, sarà un successo se Joko “Jokowi” Widodo, il presidente del più grande Paese musulmano sul pianeta, avrà evitato un disastro.

È abbastanza evidente che per l’Indonesia la presidenza del G20, già di per sé una sfida, è diventata una patata bollente con la guerra ucraina e il blocco dei commerci che rifornivano di grano una buona fetta di mondo. Forse un po’ avventatamente, Jokowi si è giocato la carta di un’improbabile mediazione tra Russia e Ucraina proprio alla vigilia del summit di Bali.

Ha visto Putin e Zelensky, ha detto la sua al G7 di Monaco prima di incontrarli ma, alla fine, è tornato a casa con un pugno di mosche: qualche vaghissima promessa da Putin, che vuole comunque tenerselo buono, ma niente di significativo.

Né sul grano né sulla tregua che tutti invocano. La sua visita, fatti salvi i giornali locali, è passata abbastanza inosservata. Un passo forse più lungo della gamba per un presidente abituato a farli.

FIGLIO DI UN MOBILIERE, fuori dai giochi politici e soprattutto dal ristretto circolo delle élite di potere giavanese, a 44 anni, nel 2005, Jokowi diventa sindaco di Surakarta fino al 2012 e poi governatore di Giacarta dal 2012 al 2014. La scalata alla presidenza, nel Partito democratico di lotta di Megawati (figlia dell’ex presidente Sukarno), è del 2014.

Vince e sarà riconfermato per un secondo mandato. Con un passato così è forse facile illudersi di poter ripetere sulla scena mondiale i clamorosi successi di casa. L’occasione è appunto la presidenza del G20. Jokowi punta, tra l’altro, sulla transizione ecologica e digitale. In fin dei conti il suo Paese possiede una delle due più grandi riserve forestali del pianeta.

E proprio nel Kalimantan (Borneo) Widodo ha deciso di trasferire la capitale Giacarta, una delle tante trovate innovative che finora gli hanno portato fortuna. Ma con la guerra in Europa le cose sono assai più complesse che la gestione di un Paese con 280 milioni di anime che ne fa il quarto Paese al mondo per popolazione.

UN PAESE che è la decima economia più grande in termini di parità di potere d’acquisto e dove Jokowi è riuscito a ridurre notevolmente il tasso di povertà mentre ha messo in piedi una delle più ambiziose riforme del welfare e un programma di sanità gratuito impensabile fino a qualche anno fa.

Se la mediazione nel conflitto ucraino è sostanzialmente fallita, le colpe non sono solo sue. Nel vuoto diplomatico negoziale registrato in questi mesi, Jokowi poteva essere una carta ben giocata se fosse stata appoggiata e corroborata da altre iniziative simili.

Contrariamente ai Paesi occidentali, l’Indonesia appartiene a un blocco di Paesi che, benché abbiano condannato l’invasione dell’Ucraina (Giacarta lo ha fatto il 24 febbraio e in marzo ha sottoscritto la risoluzione Onu di condanna con oltre 140 nazioni) hanno mantenuto con Mosca buoni rapporti.

PROPRIO QUESTA posizione, in equilibrio tra Cina, Russia, Europa e Stati uniti ma senza propendere per un campo o l’altro, gli avrebbe dato – se ben sostenuta – maggior forza nel negoziare col Cremlino.

«Jokowi – ha detto l’ex ambasciatore indonesiano in Russia Wahid Supriyadi – è stato il primo leader asiatico a visitare i Paesi in guerra, dimostra che non siamo allineati con nessun campo». Ma è stato lasciato solo (anche da altri leader asiatici). Non è affatto detto però che intenda lasciare la partita.