La guerra in Ucraina ha aggravato la situazione economica in Europa, con l’aumento del prezzo dell’energia, in un momento in cui l’economia europea deve far fronte al disordine climatico. Poi è arrivato il piano Usa di 369 miliardi di dollari per sostenere la transizione energetica, favorendo l’industria nazionale statunitense (piani del genere sono stati varati anche da altri paesi, come il Giappone, per non parlare del protezionismo cinese). Il Consiglio europeo straordinario a Bruxelles cerca di mettere a punto una risposta. Ma l’intesa a 27 è ancora difficile. La Commissione ha presentato un piano di sostegno all’industria verde europea, ma al di là delle proclamazioni di rilancio della “sovranità” in campo industriale c’è il rischio reale di una fuga degli investimenti verso gli Usa, dove l’energia costa quatto volte meno e i sussidi promessi da Biden con l’Inflation Reduction Act (Ira) impongono una produzione “nazionale”. Come rispondere? La Ue si è impegnata a raggiungere la neutralità carbonio nel 2050.

Dopo il piano di rilancio NextGenerationEu di 750 miliardi (prestito comune), adesso la strada più veloce è di accordare per un periodo temporaneo una maggiore “flessibilità” negli aiuti di stato. Era una domanda tedesca, fortemente appoggiata dalla Francia (o viceversa). Gli altri 25 sono molto reticenti, a diverso titolo.

Nel nuovo piano industriale per la competitività europea presentato dalla Commissione all’inizio del mese, c’è la proposta di rendere più semplici (o elastiche) le regole per favorire gli investimenti della tecnologia verde e di favorire gli investimenti subito attraverso un allentamento dei freni agli aiuti di stato. La Commissione vuole limitare nel tempo (fino al 2025) e a certi settori – la clean tech – questi vantaggi. Ma l’idea che piace alla Germania (che ha grandi possibilità di investimento pubblico) e alla Francia (che ha una tradizione di investimenti pubblici) lascia scettici molti partner, che temono una frammentazione del mercato unico, per distorsioni della concorrenza: Danimarca, Repubblica ceca, Ungheria, Lituania, Slovacchia e Polonia, hanno chiesto a Bruxelles “grande prudenza” su questa scelta, che rischia di portare danno al mercato unico. L’Italia pensa la stessa cosa (perché ha poco margine di manovra finanziario).

Gli aiuti di stato sono già stati liberalizzati da Bruxelles negli ultimi anni, per permettere le risposte nazionali alla crisi del Covid e poi per quella dell’energia: ogni stato ha fatto quello che le proprie finanze hanno permesso (in Francia il quoi qu’il en coûte un whatever it takes francese per impedire i fallimenti e il crollo dei redditi, in Germania un piano di 200 miliardi di sussidi per l’energia). Il problema, sottolineano alcuni stati, è che vengono permessi – temporaneamente – degli aiuti di stato, senza però fare come gli Usa, cioè imporre una “preferenza europea”. La promessa per rimediare a questa falla è un “fondo di sovranità” europeo comune, di cui però i 27 parleranno al Consiglio europeo del 23 marzo e decideranno, eventualmente, a quello di giugno: non sarà un nuovo prestito comune, per ora è un riciclaggio dei soldi non spesi. Ma nella storia della costruzione europea, tutte le volte che un’iniziativa è stata divisa in due azioni, il secondo atto (correttivo) non ha mai avuto luogo (è successo nel 1986, con il mercato unico con la promessa di fare l’Europa sociale più tardi, o nel 1988, con la liberalizzazione del mercato dei capitali, che avrebbe dovuto essere seguita da un’armonizzazione fiscale, che aspettiamo ancora).