Ai confini del Vietnam
Nelle retrovie Alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Usa fecero i conti con chi aveva appoggiato i vincitori e chi invece, più o meno obtorto collo, si era schierato col Giappone che aveva fatto del Sudest asiatico la sua area di «co-prosperità» al grido di «L’Asia agli asiatici». Cioè all’imperatore. Durante l’invasione giapponese succede che il Giappone chiede ai nuovi alleati di dichiarare guerra agli Stati Uniti. È il gennaio del 1942 e Bangkok risponde signorsi anche perché allora al governo c’è un militare – Phibun, al secolo Plaek Phibunsongkhram - che ammira Mussolini e dunque se la intende con Hiroito. Ma Seni Pramoj, l’ambasciatore tailandese a Washington – uomo della Resistenza e in seguito premier – decide col suo staff di non consegnare la dichiarazione di guerra e anzi di collaborare col “nemico”. E così, alla fine del conflitto – e quando ormai per gli Usa sta per iniziarne uno nuovo – la Thailandia sfugge a sanzioni e anatemi. La strada è in discesa per una nuova alleanza.
Nelle retrovie Alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Usa fecero i conti con chi aveva appoggiato i vincitori e chi invece, più o meno obtorto collo, si era schierato col Giappone che aveva fatto del Sudest asiatico la sua area di «co-prosperità» al grido di «L’Asia agli asiatici». Cioè all’imperatore. Durante l’invasione giapponese succede che il Giappone chiede ai nuovi alleati di dichiarare guerra agli Stati Uniti. È il gennaio del 1942 e Bangkok risponde signorsi anche perché allora al governo c’è un militare – Phibun, al secolo Plaek Phibunsongkhram - che ammira Mussolini e dunque se la intende con Hiroito. Ma Seni Pramoj, l’ambasciatore tailandese a Washington – uomo della Resistenza e in seguito premier – decide col suo staff di non consegnare la dichiarazione di guerra e anzi di collaborare col “nemico”. E così, alla fine del conflitto – e quando ormai per gli Usa sta per iniziarne uno nuovo – la Thailandia sfugge a sanzioni e anatemi. La strada è in discesa per una nuova alleanza.
Chantaburi è a settanta chilometri dal confine cambogiano dove si sono appena celebrati i 40 anni dalla caduta dei Khmer rossi.
Ma è il 1989 forse assai di più del 1979 o del 1975, quando cadde Saigon segnando di fatto la fine della Guerra del Vietnam, la data che ha senso per la Thailandia. In quell’anno – venti anni fa – cadeva infatti il muro di Berlino che doveva segnare la fine dell’Urss e per molti la «fine del comunismo». E se c’era stato un alleato prezioso nella guerra che gli americani avevano combattuto nel Sudest asiatico per evitare l’«effetto domino» che poteva contagiare l’intera Asia sudorientale, questo era stato la Thailandia.
Quei tempi sono lontani e resta soltanto il Thai Vietnam War Veterans Memorial, a 5 chilometri da Kanchanaburi e a 140 da Bangkok, a ricordare quell’epoca. Ma la Thailandia fu essenziale nella guerra ai vietnamiti perché fu la retrovia logistica dell’esercito e soprattutto dell’aviazione a stelle e strisce. La Casa reale e l’esercito tailandese costituirono le spalle larghe della guerra anche se seppero tenersene al di fuori. Ma solo fino a un certo punto. Mostrano ancora l’orgoglio di esser stati il baluardo contro il domino rosso e se affiancarono gli americano nelle retrovie, lo fecero anche nel teatro di battaglia in Vietnam.
ORGOGLIO NAZIONALE: la storiografia americana se n’è occupata molto. Tra i tanti, Richard Ruth, docente all’Accademia Navale americana (Usna). Classe 1928, è morto l’anno scorso, lo stesso anno in cui usciva il suo capitolo «War and Society in Southeast Asian History» in una collettanea che aveva fatto precedere dal saggio «In Buddha’s Company: Thai Soldiers in the Vietnam War» (2010) e da un articolo scritto per il New York Times («Why Thailand Takes Pride in the Vietnam War»). Sul quotidiano della Grande Mela, Ruth ricordava che cinquant’anni prima – nel 1967 – il primo soldato tailandese volontario era stato mandato a Bien Hoa in Sud Vietnam per combattere a fianco degli alleati americani.
Quell’uomo faceva parte dei «Cobra della regina« del Royal Thai Volunteer Regiment, un’unità di volontari inquadrati nell’esercito che, in questo Paese dalla longeva monarchia, contava circa 2mila uomini. Con lui non c’erano solo volontari ma un totale di 40mila uomini che, a diverso titolo, furono coinvolti nella guerra. Una guerra, sostiene Ruth sulla base di interviste a veterani, che ha lasciato nei thai una sorta di orgoglio patrio. Un bel ricordo, dice Ruth, che sembra fare della Thailandia l’unico Paese che di quel conflitto conserva una memoria in positivo.
Del resto, lo sforzo bellico tailandese era profumatamente pagato dagli americani che versarono oltre un miliardo di dollari in aiuti economici e militari a Bangkok e un altro mezzo miliardo in aiuto allo sviluppo.
I tailandesi affittarono sette basi che arrivarono a ospitare fino a 50mila soldati americani con una media di 26mila.
Il prezzo della guerra non fu elevato: si stima a 351 soldati uccisi in azione in Vietnam e a oltre 1350 feriti. Ci fu anche una parentesi laotiana perché le forze su cui gli americani contavano nel Paese alla frontiera Nord del regno thai (soprattutto le tribù Hmong) ricevevano la loro formazione militare in Thailandia.
LA BASE DI UDORN (Udorn Royal Thai Air Force Base) a Udon Thani, a un pugno di chilometri dal confine, era la base operativa principale sia per le operazioni logistiche o di spionaggio in Vietnam, Laos e Cambogia, sia per le operazioni di «guerra segreta» della Cia (secondo la Bbc una piccola area della base – detta Detention Site Green – fu poi usata nel 2002 dagli uomini di Langley per interrogare e torturare Abu Zubaydah – ora a Guantanamo – ritenuto un luogotenente di bin Laden. Bangkok ha sempre negato).
EREDITÀ SESSUALE: i ricordi di oggi, nella memoria del viaggiatore, si confondono con quelli di ieri. Alla vigilia della caduta di Saigon attraversammo la Thailandia di ritorno dal Laos e ci capitò di dormire proprio davanti a una caserma americana nei pressi di Udon.
Di fronte alla caserma c’era un bordello affacciato sul lato opposto della strada. Al suono della libera uscita, decine di marine rasati uscivano dai compound militari e…attraversavano la strada per la loro oretta di R&R «rest and relaxation», come si dice in gergo.
All’acronimo R&R e a tutto ciò che esso significa, si deve anche la nascita di Patpong, ancor oggi una delle mete prescelte di Bangkok per il sesso a pagamento.
Per esser precisi, Patpong esisteva già prima dell’arrivo dei giovani marine rasati in cerca di relax: erano (e sono) un paio di vicoli, due soi commerciali nel quartiere finanziario della capitale proprietà della famiglia sino-thai Patpongpanich.
Diventato con gli anni un luogo di attrazione tradizionale (ora anche per famigliole in cerca di esotismo estremo, spiega la Lonely Planet) a partire dagli anni Settanta, Pat Pong fu il luogo prescelto per la R&R dei soldatini di passaggio nella capitale, diretti o di ritorno dal Vietnam o dalle basi tailandesi. I «bar» – più raffinati delle sale con esposizione di ragazze locali esibite con un numero sulla camicetta per essere indicate dal cliente dopo la scelta – cominciarono a moltiplicarsi man mano che cresceva la richiesta. E così gli alberghi a ore e non.
Uno di questi, il Malesia Hotel – che negli anni Settanta valeva un dollaro a notte – era un 4 stelle decaduto, con piscina e ogni sorta di relax. Ragazze a piano terra, buddha stick al terzo piano ed eroina al quarto. Nella hall si confondevano le reclute e i primi viaggiatori che, dopo l’India, avevano scelto di proseguire il loro viaggio all’Eden nel Sudest. Le retate non erano infrequenti.
PATPONG E LA VITA NOTTURNA di Bangkok, con la sua prostituzione illegale per legge ma largamente tollerata, hanno scatenato molti dibattiti tra chi trova immorale un mercato del sesso che deborda anche nella pedopornofilia e chi sostiene che la prostituzione c’è sempre stata e che la maggior parte dei clienti sono thai.
Tutto può essere ma l’eredità è certa. Un’eredità che viene dalla guerra di cui i bordelli sono sempre stato un aggregato per tenere alto il morale dei «ragazzi».
Lontani dalla capitale, a noi non resta che partire da Chantaburi, famosa per il suo mercato di pietre preziose, e proseguire verso la Cambogia. Al di là del confine c’è Pailin, sede dell’ultimo governo khmer rosso e crocevia del traffico di preziosi.
Memoria o non memoria, qualcosa lega sempre in modo inestricabile i Paesi che si ritrovarono nell’abbraccio avvelenato della Guerra del Vietnam.
Le strane relazioni Washington-Bangkok
Alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Usa fecero i conti con chi aveva appoggiato i vincitori e chi invece, più o meno obtorto collo, si era schierato col Giappone che aveva fatto del Sudest asiatico la sua area di «co-prosperità» al grido di «L’Asia agli asiatici». Cioè all’imperatore. Durante l’invasione giapponese succede che il Giappone chiede ai nuovi alleati di dichiarare guerra agli Stati Uniti. È il gennaio del 1942 e Bangkok risponde signorsi anche perché allora al governo c’è un militare – Phibun, al secolo Plaek Phibunsongkhram – che ammira Mussolini e dunque se la intende con Hiroito. Ma Seni Pramoj, l’ambasciatore tailandese a Washington – uomo della Resistenza e in seguito premier – decide col suo staff di non consegnare la dichiarazione di guerra e anzi di collaborare col “nemico”. E così, alla fine del conflitto – e quando ormai per gli Usa sta per iniziarne uno nuovo – la Thailandia sfugge a sanzioni e anatemi. La strada è in discesa per una nuova alleanza.
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