Che la letteratura e l’ambiente siano apparentati da una crisi energetica analoga è da tempo materia di riflessione per Amitav Ghosh. La riforma di un’ecologia letteraria troppo dipendente dalle convenzioni – e dalle consolazioni – del realismo borghese è un progetto che ha impegnato lo scrittore indiano nel corso del nuovo millennio, tanto sul fronte della fiction quanto su quello della non-fiction. Mentre i suoi romanzi mettevano in scena ecosistemi precari, oppressi sincronicamente dagli sconquassi della natura e della storia, i saggi ragionavano sul ruolo che la letteratura può svolgere nel futuro di un pianeta consunto e desacralizzato, a beneficio di condizioni di vita sostenibili e di una maggiore giustizia climatica.

La risposta di Ghosh a questo interrogativo è stata univoca e sempre più impaziente: diversificare le risorse letterarie, rendendo il romanzo più inclusivo e proteiforme e sperimentando linguaggi capaci di evocare un rapporto integrato tra tutte le specie viventi. In Jungle Nama. Il racconto della giungla (Neri Pozza, 2021), adattamento di un poema bengali sulla leggenda di Bonbibi (la dea della foresta), Ghosh aveva già compiuto un passo decisivo in questa direzione. Con La montagna vivente. Apologo per i nostri tempi (traduzione di Norman Gobetti e Anna Nadotti, Neri Pozza, pp. 56, € 10,00), lo scrittore aggiunge un tassello a quella ‘poetica della terra’ verso cui, pensando retrospettivamente, ha teso gran parte del suo impegno artistico.

Un po’ favola onirica, un po’ parabola economico-morale, questo apologo per i nostri tempi racconta la storia di una «Grande Montagna» sacra (Mahaparbat) collocata in una valle paradisiaca della catena himalayana, i cui «Alberi Magici» forniscono ogni ben di dio, a condizione che gli abitanti non scalino le sue pendici e continuino a venerarla attraverso l’immaginazione attiva nei riti e nei miti. Prevedibilmente, non appena le risorse di questa valle felice (ultima di una lunga serie letteraria) solleciteranno la cupidigia degli stranieri delle Terre Basse, la vita di Mahaparbat subirà una catastrofica metamorfosi, trascinandosi dietro tutti coloro che hanno partecipato alla bellicosa ascesa dei suoi rigogliosi declivi.

Nell’essenzialità di una trama che si dipana all’interno di una divertente cornice digitale, ed è animata esclusivamente da collettività umane astratte e da elementi naturali smaterializzati, non si fatica a riconoscere la metafora di un modello di sviluppo capitalistico basato su un «terraformismo» tecnocratico e militarizzato, che ha alterato l’equilibrio del pianeta, cancellato intere parti di umanità e smarrito il senso della vitalità della natura (La maledizione della noce moscata, Neri Pozza, 2021).

E giacché la scrittura di Ghosh è sempre più sottile di quanto non appaia di primo acchito, i lettori di questa favola ecologica dovranno rileggerla più volte prima di poter dare corpi e voci ai personaggi di una geostoria stilizzata che riguarda tutti ma rifiuta programmaticamente di definire la posizione di ciascuno.