«Ero entrato nel tempio del bosco. Sono sprofondato in uno stato di estasi». Così raccontava nelle sue memorie Richard St. Barbe Baker, botanico e biologo inglese, di quando si perse all’età di soli cinque anni anni nelle foreste vicino casa.

Non poteva non avere una spiritualità precoce il teorico della «grande muraglia verde» africana, una barriera di alberi per fermare l’avanzata del deserto. Sorridente in una foto del 1953, in Kenya, al termine della spedizione in cui nacque l’idea, forse adesso farebbe una smorfia.

Il «muro verde» prevede di riforestare una fascia di 7000 km dal Senegal a Gibuti, lungo il confine meridionale del Sahara e del Sahel, ed è giunto solo al 4% dei lavori, a più di metà strada dal completamento previsto nel 2030. Sono le conclusioni di un rapporto presentato lunedì scorso a un meeting tra i ministri degli 11 Paesi africani coinvolti, che ha smentito i dati diffusi in precedenza, che davano l’opera al 15%.

«La grande muraglia verde è una nuova meraviglia del mondo in divenire ma i risultati non sono sufficienti» ha detto Amina Mohammed, vice segretaria generale delle Nazioni unite. Nonostante i dati sull’impiego siano positivi, con 350.000 posti di lavoro creati e un indotto da 90 milioni di dollari, gli Stati interessati si approcciano all’opera in modo molto eterogeneo e ciò impedisce che questa prenda il volo. Se l’Etiopia tira le fila con oltre 5 miliardi di piantumazioni, il Ciad è in coda con poco più di 1 milione.

Il progetto è stato lanciato nel 2007 dall’Unione africana con l’intento di combattere i cambiamenti climatici e garantire la sicurezza alimentare del Sahel, una delle regioni più aride al mondo. Entro il 2050, qui la popolazione potrebbe raggiungere i 340 milioni, essendo già passata da 30 milioni nel 1950 ai 135 milioni di oggi.

Gli agricoltori saheliani avevano imparato dai coloni francesi a disboscare la terra per l’agricoltura e mantenere i raccolti separati dagli alberi, contribuendo al «declino verde».

Secondo Salwa Bahbah, ricercatrice presso Climatekos, l’agenzia di analisi sull’ambiente autrice del rapporto sconsolante, interpellata da The Guardian, «uno dei problemi principali è monitorare il progetto poiché non esiste un vero e proprio sistema di controllo». L’ostacolo riguarda sia i dati sul campo, che ogni Paese riporta in modo indipendente, che quelli sui fondi. Se da un lato, ad esempio, sono sorti dubbi sulla veridicità del dato riportato dal Senegal, di 12 milioni di alberi piantati, dall’altro «non sappiamo esattamente dove vanno i soldi e come sono usati», ha concluso Bahbab.

Finora, il budget di circa 8 miliardi di dollari, in maggioranza mobilitati da donatori internazionali, tra cui l’Unione Europea, era ritenuto sufficiente. Non lo è più per il rispetto dei tempi stabiliti, per cui servirebbero sino a 4 miliardi l’anno.

«Dagli alberi otteniamo bellezza, desiderio, amore. Aiutaci, oh Dio! A dare il meglio alla vita e lasciare il mondo un po’ più bello e degno di averci vissuto» scriveva ancora Baker nella sua Preghiera per gli alberi.

Forse per arrivare pronti al 2030 all’Unione Africana serve un po’ di spiritualità in più.