«Affrontiamo le ondate di calore marino con 20 anni di ritardo»
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«Affrontiamo le ondate di calore marino con 20 anni di ritardo»

Intervista Roberto Danovaro, docente di biologia marina: ci dovrebbe essere una forte accelerazione nell’individuazione di nuove aree marine protette
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 30 giugno 2022

«Le ondate di calore marino sono eventi particolarmente preoccupanti per la vita degli organismi marini. Non ci sorprendono: sono almeno 20 anni che i ricercatori mettono in guardia da questi pericoli. Però, pensare che quello che era stato previsto dalla scienza fosse allarmismo cavalcato da ambientalisti integrali è stata una grande mistificazione da parte della classe politica. Se guardassimo all’ambiente come guardiamo alla crescita di un mercato e sapessimo per certo che un tipo di produzione non sarà più possibile tra 10 anni, cominceremmo da subito ad adattarci. L’ Italia ha un Piano di adattamento ai cambiamenti climatici elaborato da Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) nel 2015 che è rimasto negli uffici per 6 anni, per poi essere approvato nel 2021, ma mai finanziato. Così oggi ci troviamo a far fronte a delle emergenze che avranno costi molto superiori agli investimenti che sarebbero stati necessari, ma con risultati molto inferiori». Docente di Biologia marina all’Università Politecnica delle Marche e presidente della stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli, Roberto Danovaro è davvero preoccupato per i possibili effetti del surriscaldamento del Mediterraneo e sconfortato per l’inazione dei governi.

Professor Danovaro, quali saranno gli effetti di queste ondate di calore registrate nel mar Ligure e nello Ionio sugli organismi marini del Mediterraneo?

Le ondate di calore sono un problema molto grave perché gli organismi marini non riescono nel breve tempo ad adattarsi. Diverse ricerche hanno già messo in evidenza il comparire di mortalità massive legate ad ondate di calore. Molte delle foreste di coralli e tanti organismi del prezioso coralligeno, che è un po’ l’equivalente mediterraneo delle scogliere coralline, sono particolarmente sensibili a queste ondate e suscettibili allo sviluppo di patologie che determinano una mortalità fino al 100% di alcuni gruppi tassonomici, come coralli e spugne, lasciando una sorta di deserto. Quando muoiono questi organismi muore l’habitat che sostiene la biodiversità che sta attorno, con effetti a cascata sulla produttività primaria, val a dire sul pescato. E’ un fenomeno che ci deve preoccupare molto, considerato che in parallelo, con l’aumento della temperatura, ci si aspetta una progressiva estensione delle aree de-ossigenate, dove c’è troppo poco ossigeno perché gli organismi possano sopravvivere. Se a questo aggiungiamo la progressiva acidificazione dell’acqua del mare, dovuta all’eccesso di CO2 presente in atmosfera che viene assorbito dal mare, anche gli organismi che hanno il guscio o lo scheletro calcareo sono a rischio.

Quali sono i tempi di recupero dopo episodi di questo genere?

Sono lentissimi, se ci sono. Per esempio, un caso simile che si è verificato una trentina d’anni fa in Corsica deve ancora recuperare, per dire quanto deleterie siano queste situazioni sul lungo termine. I coralli rossi possono vivere anche 200 anni, le gorgonie diversi decenni… se dovessero morire sono questi i tempi del loro recupero. Nello Ionio, nella secca di Amendolara, sono state scoperte comunità miste pregiatissime di coralli neri e rossi anche a profondità relativamente modeste, che potrebbero subire conseguenze molto gravi per secoli.

Cosa si può fare?

I ricercatori hanno identificato delle soluzioni e queste sono all’interno delle strategie del Pnrr. L’Ispra nell’ultima legge di bilancio ha ricevuto fondi per attività specificatamente dedicate al mare. Sono progetti rivolti al potenziamento delle Aree marine protette, dal momento che abbiamo obbligo di raggiungere la protezione del 30% dei mari entro il 2030. Noi siamo lontanissimi da questo obiettivo, siamo al 5,5%, abbiamo un ritardo straordinario. Ci dovrebbe essere una forte accelerazione nell’individuazione di nuove aree marine da tutelare, sia lungo le coste sia al largo, dove per esempio sono presenti canyon sottomarini dove sono presenti «riserve» di acqua più fredda che fungono da enormi «condizionatori». Sono habitat-rifugio per i cambiamenti climatici, che permettono alla biodiversità di trovare condizioni più miti per poter resistere – parola che andrebbe rivalutata – e consentire poi la resilienza degli altri ambienti che sono stati più fortemente impattati. Bisogna anche tenere presente che dove c’è più biodiversità, assistiamo a fenomeni di collaborazione tra le diverse specie che si sostengono a vicenda. L’adattamento è una bella sfida, che richiede volontà e determinazione fin da subito, ma presuppone che la protezione del mare sia un bene comune.

Il mare è un bene comune…

Sì certo, nessuno ha la proprietà privata del mare, in teoria. Però, quando si va a proporre anche solo l’ampliamento di un’Area marina protetta spesso si trova la resistenza fortissima da parte di alcuni operatori del mare, dalla pesca al diportismo, che preferiscono non avere limitazioni nelle loro attività. Quindi, solo apparentemente il mare è un bene comune. Di fatto viene gestito da enti locali sensibili alle lobby che vogliono mantenere un mare che, se non è protetto, va a impoverire un capitale naturale che è l’unico bene pubblico che abbiamo.

Cosa proporrebbe al legislatore?

Siccome la protezione dell’ambiente è un’autentica emergenza che impatta beni e servizi che tornano a tutti noi, occorre mettere mano alla legge che istituisce le Aree marine protette. Non è possibile che si blocchi tutto se solo un Comune o una qualsiasi parte privata si oppone. In questo modo la protezione di un tratto di mare che appartiene al Paese intero è ostaggio di singoli portatori di interessi. Con la legislazione attuale siamo sicuri che non raggiungeremo neanche lontanamente i target necessari per rispettare non solo gli impegni internazionali, ma neanche per fare quello che è nel nostro interesse come collettività.

Le Aree marine protette esistenti funzionano bene?

Va detto che sono finanziate così poco che non sono dotate di strumenti forti per poter operare. Ovviamente ci sono casi straordinari che funzionano bene perché hanno un ottimo direttore, che però non è nemmeno assunto a tempo indeterminato, per cui se cambia una amministrazione può anche essere sostituito. Una situazione di vero precariato, a fronte del fatto che servono professionalità molto capaci, perdipiù sotto-pagate: prendono 50 mila euro l’anno, ma hanno enormi responsabilità e magari gli incendiano pure la macchina… Detto questo, mi preme dire che dobbiamo vedere le Aree marine protette non come un meccanismo di esclusione delle attività produttive, ma di catalizzazione. Ce lo insegnano la Francia e la Spagna: sviluppano prodotti tipici, un turismo blu di altissima qualità. Noi invece ci muoviamo come se fossimo rimasti ancorati agli anni Ottanta.

Cosa abbiamo imparato dal fermo di pesca imposto durante il lockdown?

Abbiamo appena pubblicato una ricerca che dimostra che quei due mesi e mezzo di blocco sono stati non solo benefici per la rigenerazione dei mari, ma addirittura è stato benefico per esempio per la pesca delle vongole. Le vongolare che non sono uscite in mare in quei mesi, quando hanno ripreso hanno pescato più che in tutto l’anno precedente, quindi è aumentata la resa. Questo dimostra che se noi riducessimo l’impatto delle attività ci guadagnerebbero sia i pescatori, che pescherebbero di più, sia i consumatori che troverebbero prezzi migliori.

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