Si può capire, con molto sforzo e senza condividere, chi evoca la guerra come tragica necessità di autoconservazione, perfino chi confida nel potere deterrente della violenza bellica. Sono comunque posizioni a loro modo razionali che, prima o dopo, possono condurre a una tregua, un armistizio, un compromesso. Comprendere non si possono invece quanti della guerra esultano, ne fanno quasi un’espressione della propria identità, si infervorano e, costi quel che costi, incitano ad “andare fino in fondo”, laddove è proprio un baratro “senza fondo” quello verso cui si procede. Dove l’annientamento resta l’unico orizzonte possibile.

Le cronache e le immagini della ultra bellicista “Marcia della vittoria”, conclusasi l’8 febbraio a Gerusalemme, testimoniano vividamente di questo stato d’animo che invoca nei fatti, pur guardandosi dal riesumare l’agghiacciante formula, una “soluzione finale”. Su questa strada non sono tollerate deviazioni o battute d’arresto e la linea di principio deve sempre e comunque prevalere sulla vita degli ostaggi, eterna regola aurea di ogni “fronte della fermezza”.

Le posizioni assolute abbisognano di un fondamento assoluto. Ovverosia divino. Quanto maggiore è la ferocia, la demonizzazione dell’avversario e delle sue ragioni, fino alla sua completa disumanizzazione, tanto più dall’alto deve discendere il via libera a procedere. Direttamente da un dio o da qualche altra sacralizzata entità trascendente (la missione di un popolo, la superiorità di una razza) e dalle sue leggi eterne. La parola di Dio non scende a compromessi con nessuno, esige l’annientamento di quanti la contraddicono, incita ad “andare fino in fondo”.

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Se ha donato tutta la Palestina agli Ebrei c’è poco da discutere. La bandiera con su scritto “Dio è con noi” è da sempre corredo imprescindibile di innumerevoli invasioni e sopraffazioni, nonché dei più efferati massacri. Il fanatismo religioso (che può darsi del resto anche in versioni pagane come quelle neonaziste) domina ormai da decenni la scena politica mediorientale variamente intrecciato con l’aggressività dei nazionalismi. Tanto che non vi è strategia geopolitica che possa pensare di non farci i conti, preferibilmente servendosene in un modo o nell’altro. Israeliani e Palestinesi non sono affatto indenni dal ritorno dello spirito e delle pratiche simboliche della guerra di religione.

Se l’antisemitismo e, di contro, il razzismo antiarabo hanno potuto reinsediarsi comodamente nel centro del conflitto mediorientale determinandone le forme e le impasse, è in buona misura grazie a questo ritorno di cui Hamas e la destra teocratico-suprematista israeliana sono stati fra i protagonisti. Le conseguenze si sono irradiate ben oltre i confini del Medio oriente. E se non vi è dubbio che fenomeni di antisemitismo si siano moltiplicati in tutto l’Occidente è anche vero che il ricorso a questa definizione e l’ampliamento strumentale del suo raggio di azione si sono prestati a più di un abuso, dando luogo, in Germania soprattutto, a insensate censure e gravi discriminazioni.

Se ogni accenno alle ragioni dei Palestinesi e ogni condanna della guerra, letteralmente senza quartiere, condotta da Israele a Gaza può essere tacciato di antisemitismo, allora questa definizione finisce coll’assumere la stessa funzione persecutoria e manipolatrice che ebbe quella di “attività antiamericane” durante il maccartismo. Fra l’altro con effetti decisamente controproducenti. Quando l’asse si sposta dalla storia politica con tutte le sue tragedie verso la dimensione etnico-destinale, l’idea stessa di una ricomposizione si dissolve e le pulsioni razziste viaggiano col vento in poppa.

Ben pochi hanno avvertito, e ancor meno segnalato, le troppe affinità tra il convegno organizzato dall’estrema destra austriaca e tedesca nei pressi di Potsdam e la conferenza di Gerusalemme sulla ricolonizzazione di Gaza promossa in gennaio dalla destra religiosa e nazionalista israeliana con la partecipazione di un folto pattuglione di ministri. Sgombriamo subito il campo da ogni richiamo agli anni Trenta. Né i fanatici teo-nazionalisti israeliani, né l’ultradestra germanica, da Afd in giù, sono reincarnazioni o emuli del nazionalsocialismo. Entrambi sono però espressione di un suprematismo innervato da diverse forme di razzismo e incline all’affermazione violenta delle proprie ragioni.

Fenomeno che, di qualunque cimelio intenda cingersi, è saldamente piantato nella contemporaneità. A Potsdam come a Gerusalemme si ragionava di come restaurare la purezza etnica e culturale di uno spazio, di una terra, allontanandone in un modo o nell’altro la popolazione “disomogenea” o ritenuta intrinsecamente ostile. A voler trovare le differenze ve ne sono ovviamente a iosa, ma il tema della deportazione e l’affermazione di un diritto di proprietà etnicamente esclusivo è con tutta evidenza comune.

Le oceaniche manifestazioni contro l’estrema destra e la sua dottrina xenofoba, che continuano ad attraversare tutta la Germania, hanno però solamente sfiorato le pulsioni antisemite prudentemente acquattate dietro le più popolari e tollerate posizioni xenofobe e soprattutto antislamiche del radicalismo nazionalista tedesco. Spostando così prevalentemente verso i movimenti filopalestinesi (che non ne sono indenni, ma men che meno succubi) l’accusa di antisemitismo.

Operazione facilitata da una ormai consolidata posizione dell’ultradestra che fa convivere l’irrinunciabile credo antisemita con l’appoggio, sinceramente ammirato, dello stato israeliano e delle sue politiche muscolari. Cosicché si può tranquillamente continuare a delirare del complotto cosmopolita e giudaico guidato da George Soros per la sostituzione etnica delle popolazioni bianche europee, plaudendo al tempo stesso ai carri armati che spianano Gaza e facendo il tifo per i pionieri armati da Itamar Ben-Gvir per la riconquista della Cisgiordania. Gente indigesta perfino a Washington.