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Afasia atlantica e alibi ucraino ai confini d’Europa

Afasia atlantica e alibi ucraino ai confini d’EuropaFamiglie armene in fuga dal Nagorno-Karabakh – Ap

Nagorno Karabakh In assenza di argomenti sullo «scontro di civiltà», gli alibi invocati per spiegare queste contraddizioni sono «la guerra in Ucraina», il fatto che l’Armenia sia un alleato della Russia e la distanza dell'Armenia. Più di trent’anni di massacri accesi dal nazionalismo armato ci hanno insegnato che le implicazioni ci attraverseranno molto da vicino

Pubblicato circa un anno faEdizione del 1 ottobre 2023

Stepanakert è vicina, per quanto i media distolgano lo sguardo dalla pulizia etnica. Sin dai primi pogrom di armeni, di cui arrivava notizia durante l’era Gorbaciov, il conflitto attorno all’enclave del Nagorno Karabakh ha costituito un modello per le sanguinose guerre che il nazionalismo ha acceso lungo le frontiere dell’Europa.

Si registrarono allora un milione di rifugiati e circa 20mila morti, in larga parte azeri. Soprannominato «Dollaro» il proprio zelo tangentizio, il presidente azerbaijano venne cacciato, mentre la «Repubblica dell’Atsakh» divenne un piccolo stato-caserma armeno arroccato sulle montagne: influente nella politica di Yerevan e della diaspora, ospitava l’esercito più forte del Caucaso ed era protetto da enormi cavi d’acciaio, come deterrenza per attacchi aerei a sorpresa.

IL REVANSCISMO azero nel tempo ha preso la forma della dittatura del clan Aliyev (padre e figlio), finanziandosi con la rendita del gas e raccordandosi con l’assertività militare turca. Ha conquistato l’appoggio di Israele, affratellato dalla memoria dei rispettivi genocidi, ma mobilitato in chiave anti-iraniana: mentre Amnesty International ha denunciato l’impiego di munizioni a grappolo israeliane, il quotidiano Haaretz evidenziava come «le impronte digitali di Israele sono ovunque nella pulizia etnica nel Nagorno Karabakh». La conquista militare folgorante ha coinciso con il giorno dell’indipendenza armena, grottescamente accompagnata dal messaggio di auguri inviato dal governo Netanyahu.

Dopo mesi di soffocamento dei canali umanitari, la posizione di Baku è che gli armeni oggi stiano fuggendo volontariamente, mentre sono stati ripristinati loro tutti i servizi essenziali, a cominciare dalle forniture di elettricità. Se si adoperassero per trattenerli – aggiungono gli azeri – verrebbero accusati di presa in ostaggio. Tuttavia, la memoria delle decapitazioni non lascia scampo, mentre ovunque girano immagini di violenze su cose e persone.

Le tv di Baku mostrano i propri giornalisti chiedere ai rifugiati da dove provengano, così da «correggere» i toponimi con la versione in lingua azera. Anche in questo caso non possiamo isolare l’estinzione della repubblica di Artsakh dalle vicende a noi più vicine dello spazio post-sovietico e post-jugoslavo.

Si pensi a come nell’Ucraina di oggi viene rigettato il bilinguismo sui nomi di città («Odesa, ma non Odessa!») e al significato che queste scelte hanno nella storia europea. Molti in Ucraina hanno gioito per la vittoria azera, che si è avvalsa della stessa formula di «operazione antiterrorismo» impiegata da Kyiv contro i separatisti del Donbas.

IMPEGNATA in guerra sulle pianure ucraine e presente sulle montagne del Caucaso con le proprie forze di peacekeeping, Mosca non ha dato corso all’alleanza difensiva con Yerevan. Le piazze armene sono in ebollizione, con manifestanti spesso divisi circa il ruolo della Russia. La linea di fondo dell’imperialismo russo è brutalmente riassunta dall’alto ufficiale che in un’intervista si è augurato che gli azeri quanto gli armeni si scannino fino a che non ne resta nessuno, spalancando le porte a Mosca.

Sorpresa dalla velocità dell’azione militare, la diplomazia europea cerca di portare armeni e azeri a incontrarsi a Granada. Si partirà comunque da un dato di fatto, la fine dell’enclave armena, con gli azeri che mai come ora non vedono ostacoli ad agire come meglio credono.

Nelle fasi recenti gli attacchi non hanno riguardato solo il territorio della repubblica separatista, ma anche quello dell’Armenia vera e propria: oggi Erdogan e Aliyev non fanno mistero di mirare a un corridoio che colleghi l’Azerbaijan al Nakhichevan, porzione di territorio azero incastonata fra Turchia, Iran e Armenia. La situazione regionale è dunque tutt’altro che stabilizzata.

Il cattivo sangue ha radici profonde. Dopo aver pervicacemente negato il genocidio armeno, la Turchia di Erdogan guarda con favore ad azioni belliche contro gli armeni. In occidente qualcuno ricorda l’episodio del militare azerbaijano che anni fa, trovandosi a Budapest per un’esercitazione Nato, imbracciò un’ascia e fece a pezzi nel sonno un commilitone armeno. Estradato dall’Ungheria, venne accolto con grandi onori in patria: fu perdonato dal presidente Aliyev e ricevette un appartamento e la promozione a maggiore.

DAVANTI a questa catena di inneschi, la Nato, impegnata a far digerire ad Ankara l’ingresso della Svezia dell’alleanza, brilla per afasia. Mentre il segretario generale allerta per le provocazioni serbe e l’escalation in corso in Kosovo, cala il silenzio sull’esodo di 120mila armeni nel Caucaso. Nessuna condanna, nessuna sanzione a difesa dell’ordine internazionale. Evidentemente esistono minoranze più meritevoli e minoranze meno meritevoli.

Democrazie contro dittature, intervento umanitario contro violazioni… molti princìpi sembrano saltare. In assenza di argomenti sullo «scontro di civiltà» (gli armeni sono cristiani dal 301 dopo Cristo, prima dell’Editto di Costantino), gli alibi invocati per spiegare queste contraddizioni sono «la guerra in Ucraina», il fatto che l’Armenia sia un alleato della Russia e la distanza da noi del remoto Nagorno Karabakh. Più di trent’anni di massacri accesi dal nazionalismo armato ci hanno insegnato che le implicazioni ci attraverseranno molto da vicino.

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