Esiste uno spazio fisico intermedio in cui l’occhio e la mente vedono e non vedono allo stesso tempo. Può essere più o meno esteso, più o meno circoscrivibile, più o meno percepibile, e pur nella varietà è possibile pensarlo e viverlo come un luogo, cioè uno spazio legato a una concreta immagine di identità.

Una delle descrizioni più antiche e meravigliose di questo spazio ambiguo si trova alla fine di Inferno XVI, 124-136: è l’apparizione del mostro Gerione che, evocato da Virgilio con un rito misterioso (quello della corda gettata nel vuoto), risale dagli abissi infernali. Dante in un primo momento, scorgendone il solo movimento sinuoso verticale «per quell’aere grosso e scuro», lo associa per similitudine al marinaio «che ’n su si stende, e da piè si rattrappa» risalendo dal fondale, benché quella creatura fluttuante sin da subito si mostri come una «figura meravigliosa ad ogne cor sicuro», cioè sorprendente e spaventosa anche per il più impavido dei testimoni.

QUESTA ASSOCIAZIONE, che rende liquido lo sguardo e presto si rivelerà erronea, sembra proprio descrivere il modo in cui la mente produce un autoinganno, in questo caso subdolamente rassicurante, nonostante Virgilio avesse già avvertito Dante di stare in guardia rispetto all’imminente apparizione («Tosto verrà di sovra / ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna: / tosto convien ch’al tuo viso si scovra», vv. 121-123) e nonostante Dante avesse esortato il lettore a credere nell’incredibile, giurando sulla sopravvivenza stessa della sua «Comedìa».

Questo, l’apparizione del mostro, è anche la trasfigurazione del modo con cui si realizza la frode tra gli esseri umani, confusi dalla voglia di credere quel che desiderano piuttosto che guardare al vero. Quando approda sull’orlo dell’«alto burrato», il baratro infernale presentito e non visto dal Pellegrino, Gerione mostra finalmente il suo volto affabile umano ma cerca, invano, di nascondere il corpo mostruoso, che è appunto quello di un serpente armato di arti pelosi, artigli e coda velenosa.

COSÌ DANTE, continuando la metafora del «si vede e non si vede», disegna nel XVII dell’Inferno un altro spazio ambiguo, sempre intermedio, che curiosamente questa volta associa al castoro che si nasconde sotto il pelo dell’acqua in attesa della sua preda.
Non si sapeva all’epoca che il castoro fosse completamente vegetariano e anzi si pensava che fosse un vigoroso cacciatore; e sta proprio qui la bellezza di questo fraintendimento, il quale rivela come gli oggetti che appaiono in questo spazio intermedio siano percepiti come pericolosi e ostili.

CHI ABBIA AVUTO occasione di affacciarsi dal bordo di un’imbarcazione dove l’acqua sia abbastanza profonda da non vedere il fondo, avrà avuto certamente modo di provare se non un brivido almeno la tentazione irresistibile di scrutare quella zona spazialmente non circoscritta in cui qualcosa può apparire. Lo si può immaginare come il luogo di un incontro inaspettato, e la sensazione di attesa prodotta potrà anche essere una rivelazione del proprio subconscio. In genere sollecita la memoria dello spavento, bisogna essere sinceri, ma anche se così non fosse, bisognerà tuttavia ammettere che quello è proprio un luogo in cui esercitare le più umane capacità di predizione, cioè di applicazione involontaria del calcolo delle probabilità.

CHE L’IMMAGINE evocabile sia una giovane cernia ingenuamente curiosa o un atterrente squalo bianco (mannaggia a Spielberg e a Collodi), qualche aguglia luccicante o il sommergibile del disneyano Archimede, apparirà comunque in quello spazio incerto e gravido di sorpresa.

Quindi la mente vede prima degli occhi costringendo il corpo a fare i conti con l’immaginazione. E se questo concetto esprime un’alchimia, la magia sta nel fatto che la nostra percezione dello spazio sembra accogliere il tempo: sembra cioè naturale che un luogo incerto possa essere proiettato in una situazione temporale diversa, tanto per accettarlo, familiarizzarlo, a costo di metterci della paura. È che l’emersione dalla profondità provoca un inevitabile turbamento, l’apprensione di avere qualcosa sotto di noi che vive per conto proprio e che tuttavia potrebbe emergere all’improvviso, spezzando quella linea di continuità che in genere è ambita (spesso in maniera fallimentare).

Un esempio poco vistoso di tale incursione dell’abisso temporale potrebbe essere la storia del Celacanto o Latimeria. Non si conosce altro pesce o animale vivente che abbia una forma pressoché immutata da 360 milioni di anni e si pensava che si fosse estinto insieme ai dinosauri 60 milioni di anni fa (nel Cretaceo). Per questo è uno dei pochi e più illustri fossili viventi.

POSSIEDE una serie di pinne muscolose e articolate, come se fossero zampe insomma, che gli permettono di nuotare all’indietro o di rimanere immobile nella corrente. Insieme al fatto che possegga polmoni, che immediatamente si atrofizzano, e che sia ovoviviparo, lo eleggono a un potenziale precursore dello spostamento della vita animale dall’acqua alla terra.
I pescatori delle isole Comore, nell’Oceano indiano dove per lo più vive, non hanno mai saputo bene che farsene: il suo metro e mezzo di corpo è intriso di un olio che lo rende immangiabile, perché manca di reni come gli squali; in compenso si narra che si servissero della sua pelle squamosa per levigare il legno, tant’è dura. Vive in acque profonde e solitamente dunque sfugge alla cattura.

Ha, in effetti, l’inquietante aspetto di una creatura preistorica, confermato dal buffo destino di essere stato prima conosciuto come essere estinto e di essere poi scoperto vivente (nel 1938). Il fascino di tale creatura sta proprio in questa resistenza al tempo, anzi ancor di più nell’essere un testimone intatto d’un passato abissale. La sua cattura assomiglia a una pesca nel tempo e la sua apparizione rischiara una zona compresa tra la presenza e un’oscura, profonda, inarrivabile lontananza.

LA SENSAZIONE di questo spazio vuoto non dovette essere del tutto estranea neppure a Orfeo, quando tentò di far riemergere Euridice dagli abissi infernali, questa volta col canto. Lui davanti con la proibizione di voltarsi indietro, cioè di guardare con franchezza nell’intervallo che separa il suo oggetto dalla vita. Anche questo mito, qualunque sia il suo significato, sfrutta il turbamento che provoca l’incertezza della profondità e scopre quanto sia forte la tentazione di scrutare sempre nella zona nella quale può apparire quel che potrebbe emergere. Evidentemente Orfeo aveva posseduto il grande potere di invertire il tempo ma non conosceva l’arte divinatoria: altrimenti avrebbe guardato sempre in avanti, lì dove sono le cose future.

Invece dubbio e paura lo spingono a voltarsi e a compiere un gesto irreparabile. Nella versione delle Metamorfosi (X, 1-77) di Ovidio, dopo essere riuscito a fermare e a invertire il tempo degli eterni riti (Sisifo si siede sul suo masso, Tizio tira un sospiro di sollievo, le Furie piangono) con la sua orazione accompagnata dalla lira, Orfeo ottiene l’impossibile, e al vertice della ripida salita immersa nella caligine opaca, timoroso e avido di accertarsi che Euridice lo segua, volge lo sguardo: le braccia di lui e di lei si stendono per afferrarsi, ma infelici entrambi stringono l’aria.

L’impressione che suscitano queste varie storie, che in parte comunicano un senso di oppressione e di impotenza, è che dentro il luogo marginale che circonda e separa il nostro corpo da quel che potrebbe emergere noi leggiamo il limite della trasparenza. L’occhio sembra vagare ansioso in questa zona in cui è possibile vedere ma che viene tuttavia percepito come un naturale confine dell’invisibile o del non ancora visibile, e che in fondo ha un potere di trascinamento dell’immaginazione. Nella sua versione tetra ci dice che oltre lo sguardo abitano mostri, nella sua versione luminosa ci dice che abbiamo ancora tante cose da scoprire.

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SCHEDA. Emersioni: Inferno XVI

121 El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna:
tosto convien ch’al tuo viso si scovra».
124 Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;
127 ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa Comedìa, lettor, ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vòte,
130 ch’i’ vidi per quell’aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
133 sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
136 che ’n sù si stende, e da piè si rattrappa.

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3- continua