Con Sidran, morto il 23 marzo scorso a 79 anni, è scomparso uno degli ultimi giganti della letteratura, del teatro e del cinema prima jugoslavo e poi bosniaco/bosgnacco, e cioè uno degli ultimi testimoni di un mondo che fu: tra jugonostalgia, come si chiama il sentimento di chi vorrebbe tornare ai tempi di Tito, non per ideologia ma per appartenenza a un cammino di speranze collettive, sia pure tradito, sia pure deviato; e nostalgia per un presente che sfugge di mano e in cui una Bosnia al centro degli interessi mondiali durante un ventennio si ritrova ora sepolta nell’oblio e nel disprezzo, preda del trionfo di ipocrisie globali e di mafie politico-religiose locali.

Di questo ci ha parlato e ha scritto Sidran, con l’anima spezzata per una guerra che ha distrutto due mondi, quello di prima e quello a venire. E di un assedio che, contro la città di Sarajevo e la Bosnia intera tra il 1992 e il 1995, riportò la ferocia esplicita, lo stupro e la pulizia etnica nel cuore dell’Europa.

Un leone è stato Sidran, indomito, nella grandezza degli errori e nella forza di una terra da lui esplorata con le armi della poesia. Armi che non tacquero nemmeno quando altre armi, e cioè i cannoni e i fucili puntati su Sarajevo dalle alture intorno, si misero a falciare la vita nella/della capitale bosniaca.

Anche nel passato socialista, però, la violenza non era poca e la jugonostalgia ama la verità: la verità di lotte anche dentro il movimento resistenziale, di prove micidiali, tra guerra e un dopoguerra segnato dallo scontro tra Tito e Stalin, dai crimini di Goli Otok, dal riavvicinamento con Mosca, dalla normalizzazione degli anni Sessanta-primi Ottanta e, poi, l’incubo. Esemplare la vicenda del partigiano comunista Juraj Marek che durante la resistenza «rimase a guardare la fucilazione» del proprio stesso padre, un ustaša -racconta Sidran conversando con Piero Del Giudice a Sarajevo nel 1993-, che fu aguzzino a Goli Otok contro il padre di Sidran e gli altri «cominformisti», poi «brillante pedagogo» e infine suicida nel 1992… In Papà è in viaggio d’affari (1985, film con la regia di Kusturica e la sceneggiatura di Sidran, e che Silvio Ferrari, attentissimo traduttore in italiano dal bosniaco-croato-serbo, ritiene che dovesse avere il titolo Papà è in viaggio di/per servizio, non esistendo «viaggi d’affari» nella Jugoslavia socialista) si riprende la storia della famiglia Sidran, con il padre finito nelle mani degli sgherri antistalinisti di Tito.

Il film, il secondo della coppia Kusturica-Sidran dopo Ti ricordi di Dolly Bell? (1981, Leone d’oro a Venezia, migliore opera prima), vinse a Cannes nel 1985. Le sceneggiature di questi due film, insieme ad altro materiale, possono essere lette in italiano in quel libro «mostruoso»che è Romanzo balcanico (Aliberti, 2009, pp. 927), curato da Piero Del Giudice (morto nel 2018, poeta e giornalista) con traduzioni di Silvio Ferrari, Nadira e Adem Šehovic, Alice Parmeggiani, ed altre/i. Grazie a Del Giudice e a chi abbiamo appena citato, e inoltre alla Casa della poesia di Baronissi (in provincia di Salerno), la poesia di Sidran è arrivata in Italia. Non le/i ringrazieremo mai abbastanza.

Sidran leone e gigante, ma soprattutto poeta dell’umanità schiacciata dalla guerra in La bara di Sarajevo/Sarajevski tabut (ed. italiana ADV, 2002) e Il cieco canta alla sua città (ed. italiana Saraj, 2006). Bara/tabut: «Da una base semitica T-B-T sono venute fuori in molte lingue (arabo, ebraico, aramaico, copto…) diversi significati: cuore, petto, seno, nave, barca, cassa, scrigno, casa votiva (…) in Bosnia, oggi, è la tradizionale cassa da morto dei Bosniaci (musulmani) (…) È attraente e suggestiva la somiglianza fra la forma del tabut e la configurazione del sito spaziale sul quale da più di cinquecento anni esiste la città di Sarajevo…» Una città-bara offerta all’assedio degli Animali.

Leggiamo in nota alla poesia «La preghiera di Sarajevo»: «Animali: così la gente di Sarajevo chiama quelli che dall’alto bombardano la città»; e poi, in questo stesso testo: «…Togli gli Animali, dai declivi dei colli, toglili. / Togli gli Animali, ti scongiuro, Signore – / ma non toccarmi il maiale né il cinghiale, / non toccare l’usignolo, né il variopinto canterino di casa / (…) Toglili, Signore / da questo e dall’altro mondo. / Allontanali, / e aiutali.» In questa città oppressa, si muove il cantore cieco: «…C’è forse qualcuno che conosce meglio di me questa città? / Di me, Signore, al quale hai dato di non vedere mai / quella che ama?»… (in Il cieco canta la sua città). Ma gli Animali non vennero tolti, né dal Signore né da entità più terrene, e per tre anni furono loro a decidere della sorte dei sarajevesi. Ma nel 1996 nasce il figlio Tarik (Sabija ne è la madre – «Mi sono avvolto / nel bozzolo / di un tardo amore…», in «Tarik»), e rinasce la vita nella città senza assedio, dopo l’ambigua Dayton.

Da allora, altre miserie: le rovine esaltanti si trasformarono nel trionfo del nazionalismo affaristico, come in ogni postdemocrazia che si rispetti, in ogni democratura. Ora la postdemocratica Bosnia ha un monumento, il monumento-Sidran, ma Sidran saprà fuggire dalla gabbia in cui lo hanno messo, e in parte si è messo da solo, per disperazione, negli ultimi anni. Noi sappiamo che questo accadrà: se è vero che, come nel titolo di una delle opere teatrali più crude scritte da Sidran, A Zvornik ho lasciato il mio cuore (siamo nel conflitto degli anni Novanta – un «cetnico l’afferra per i capelli, e lei strilla, ma lui l’ha gettata per terra, e la colpisce con dei calci alla schiena. Lei continua a strillare, ma da terra riesce ad agguantarlo per lo scroto, tanto da minacciare di strapparglielo (…) alla fine riesce a estrarre la pistola – ed esaurisce tutto il caricatore sul corpo di Vera…»), questo stesso cuore non ha cessato di battere, in lui e nell’umanità rinnovata non dalla guerra ma contro la guerra, anche contro questa che c’è.