Europa

A Vucjak in trappola, con le spalle al muro

A Vucjak in trappola, con le spalle al muroVucjak, Bosnia, profughi in fila per gli aiuti della Croce Rossa. Sotto, profughi in preghiera sotto una tenda – foto Darko Vojinovic-Ap

Rotta balcanica Siriani, afghani, iracheni, curdi, pakistani alla disperazione nell’ inverno balcanico, senza cibo, acqua, riscaldamento e alloggio e con la violenza della polizia croata. Tentano da mesi il «grande gioco»: attraversare respinti tre confini. L’Europa tace

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 19 novembre 2019
Alessandra Briganti VUCJIAK (BOSNIA ERZEGOVINA)

Ali è appeso da ore ai cancelli del Bira. Aspetta che suo fratello Samir si affacci un’ultima volta per salutarlo. Uno slancio furtivo, una mano tesa in avanti. Poi la porta del centro di accoglienza si richiude. «Ora posso andare» sorride Ali. I due fratelli non si vedevano da quando cinque anni fa erano scappati da Aleppo, Ali verso la Grecia, Samir verso Beirut. Da tre mesi Samir si è rimesso in viaggio e ora è intrappolato in Bosnia-Erzegovina. Letteralmente.

Se Samir avesse deciso di uscire per riabbracciare suo fratello, non sarebbe più potuto tornare nel centro. Avrebbe perso quel poco di niente che ha: uno straccio di brandina in un luogo dove si sta accalcati tutti insieme, duemila persone, minori e non, con la costante paura di essere derubati o coinvolti in qualche rissa. Ma almeno Samir ha un tetto sulla testa e questo è il prezzo della sua libertà.

CI SONO ANCHE storie come questa dietro la decisione di restringere la libertà di movimento dei migranti alloggiati nei centri temporanei. Una decisione presa dalle autorità locali del cantone Una-Sana, la regione della Bosnia nord-occidentale al confine con la Croazia. È qui affluisce la maggior parte dei migranti che tentano di entrare in Europa. Non ce la fanno, dicono, a sostenere il peso di un’emergenza che grava solo sulle loro spalle da mesi.

Quasi 45mila sono i migranti transitati in Bosnia nell’ultimo anno. Siriani, afghani, iracheni, curdi, pakistani. Al momento secondo le autorità locali ce ne sarebbero circa seimila nel solo cantone Una-Sana, principalmente a Bihac e Velika Kladusa, mentre gli alloggi disponibili sarebbero meno della metà. Ci possono volere settimane, mesi, anche anni per passare dall’altra parte della barricata. The Game, il gioco, quello in cui se tutto va bene, ti resta addosso la pelle.

«È il loro lavoro respingerci, ma perché bruciare i vestiti, le scarpe, i cellulari? Perché picchiarci? Siamo poveri, non criminali» racconta Adnan, gli occhi color pece fulminati da un lampo di disperazione. Adnan lo sa che quei respingimenti sono illegali, che ha diritto a presentare una richiesta d’asilo, ma non importa. È quel gioco sadico che per Adnan è inaccettabile. Un gioco che sabato scorso è quasi finito in tragedia, con un migrante ferito dai colpi inferti dalla polizia croata mentre tentava di entrare in Slovenia.

A BIHAC cala l’inverno. La pioggia rende più difficile l’attraversamento del confine e soprattutto peggiorano le condizioni in cui versano i migranti intrappolati in un luogo in cui tutto sembra sull’orlo del collasso. Così l’amministrazione locale ha ingaggiato un duro braccio di ferro contro Sarajevo, l’Europa e le organizzazioni internazionali, in particolare l’Oim (oppure Iom, Organizzazione mondiale per le migrazioni) a cui viene destinata la maggior parte dei fondi europei per la gestione della crisi umanitaria.

Ipocriti, li chiamano. Ipocriti perché scaricano sulla Bosnia Erzegovina una crisi che loro non vogliono risolvere, pur avendo i mezzi per farlo. Ipocriti, perché le loro bocche accusano la Bosnia di non rispettare i diritti umani. Ipocriti, li chiamano quelli che fuori dai cancelli del Bira sono lì a chiedere la chiusura del centro.
«Criminals go home», «Free Bihac», «Iom go home» si legge sui cartelli che brandisce la poca gente accorsa. Sono i segnali di insofferenza di una città, Bihac, tappa obbligata per il passaggio in Croazia, che all’inizio della crisi aveva aperto le porte ai migranti con generosità ed empatia.

SENTIVI ripetere che rifugiati lo erano stati anche loro in quella guerra maledetta ancora vivida nei loro ricordi. Sapevano cosa significasse non avere nulla nello stomaco, dormire all’addiaccio. Lo sanno ancora, ma «questi, aggiungono, non scappano dalle guerre come noi». A un anno e mezzo dall’inizio della crisi i distinguo non risparmiano nemmeno la Bosnia e lo stesso sindaco di Bihac, Suhret Fazlic, che tanto si era speso per l’accoglienza dei migranti, ora li sta mettendo in fuga dalla città.

«POSSIAMO ospitare solo persone in possesso di un documento, ormai sono pochi quelli che si arrischiano ad affittare le stanze ai migranti» racconta Meliha con un tono di voce che mescola paura e sconforto. Quando i primi migranti erano arrivati in città Meliha ne aveva accolti a gruppi di dieci nel suo minuscolo b&b. Poi è stato sempre più difficile farlo. «Guarda, dice porgendomi un registro, gli stranieri li dobbiamo annotare qui, a parte».
Questo sono i migranti oggi a Bihac: un mondo a parte, un corpo estraneo conficcato nel tessuto di una comunità che tuttora stenta a fare i conti con il proprio passato. E ora l’imperativo è cancellare ogni traccia del passaggio dei migranti, rinchiudendoli come topi nei centri temporanei o trasferendoli a Vucjak, la tendopoli improvvisata a pochi chilometri dalla città che sorge su un’ex discarica tossica, dove manca tutto, per primo la dignità. «La polizia è venuta qui ieri e ha dato fuoco ai capannoni» racconta Safik, afghano, da tre giorni a Bihac. Insieme a un centinaio di compagni aveva occupato i locali di quello che un tempo era il fiore all’occhiello della siderurgia, la Krajina Metal. Cercavano un riparo per la notte in questo freddo e piovoso anticipo di inverno. Nei centri non c’è posto, tanti i minorenni che restano per strada. L’alternativa è crepare a Vucjak in mezzo al fango, le latrine, i rifiuti.

MA LA POLIZIA rispedisce le accuse al mittente. Sono loro, i migranti, che accidentalmente danno alle fiamme case e fabbriche abbandonate con il fuoco che accendono per riscaldarsi. Una donna in lacrime racconta che la sua sfortuna è di avere una casa tra i monti che fiancheggiano il confine. Lì, dice la donna, i migranti sono entrati più volte, spaccando porte e finestre. «È ovvio che dovranno pur trovare un posto dove dormire e qualcosa da mangiare, ma quali colpe ho io? Possibile che non si riesca a trovare una soluzione?».

È l’interrogativo che pende su tutte le nostre teste. Con un’aggravante: la Bosnia è uno Stato fragile e diviso, talmente tanto che a un anno dalle elezioni Sarajevo non ha ancora un governo. Le divisioni ancora esistenti sono nutrimento per i partiti corrotti al potere. Per loro la crisi dei migranti è la tempesta perfetta. Si fanno buoni affari e si scava ancor più in profondità in quelle divisioni.

BASTA UN COLPO d’occhio alla rotta percorsa dai migranti per rendersene conto. I profughi non hanno difficoltà a superare il confine tra Serbia e Republika Srpska (una delle due entità di cui è composta la Bosnia, a maggioranza serba; l’altra è la Federazione bosniaco-croata, ndr), come fosse un unico Stato. In compenso vengono respinti a Klujic, sulla linea che separa le due entità della Bosnia. Vengono presi come animali e sbattuti fuori da treni e autobus. Un checkpoint interno allo Stato che costringe i profughi a proseguire il cammino a piedi e loro, i bosniaci, a vedere innalzati muri che faticosamente avevano cercato di abbattere. E poi c’è un altro confine, quello con la Croazia, presidiato da droni e poliziotti dal manganello facile, un confine violento che segna la distanza tra la Bosnia e l’Europa. Su quel confine, Vucjak coi suoi zombie che fluttuano nel fango è l’emblema di una sconfitta che ci accomuna tutti, nonostante i muri che ci separano.

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