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A un mese dalla Brexit, Johnson incassa una vittoria

A un mese dalla Brexit, Johnson incassa una vittoriaIl porto di Larne in Irlanda del Nord, in basso Boris Johnson – Ap

Guerra dei vaccini Il brutto pasticcio Ue sui controlli alla frontiera fra le due Irlande, poi ritirati, ha riattizzato il nazionalismo britannico

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 3 febbraio 2021

A voler essere pedanti, la parola “vaccino” significherebbe “di vacca”, anche se dopo il dietrofront dell’Unione Europea sul blocco doganale del confine nordirlandese – prima annunciato poi immediatamente ritirato – sarebbe forse più appropriato dire “in vacca”.

Così, a un mese esatto dallo scoccare definitivo e irreversibile dell’ora Brexit, ecco che la schadenfreude – quel meschino e più che mai piccolo-borghese sentimento di soddisfazione per le sventure del proprio rivale, nemico, concorrente – fiorisce puntualmente a Londra in gran copia. Un po’ come i narcisi prematuri di questo ex-inverno globalmente riscaldato.

In una situazione cosiddetta “normale”, l’imbarazzante contorsionismo di Bruxelles – che venerdì scorso aveva annunciato l’introduzione di controlli alla frontiera fra le due Irlande per impedire che il vaccino AstraZeneca andasse ad allungare il brutale distacco che la vede arrancare con il 2,1% di vaccinazioni già effettuate dietro a una Gran Bretagna che veleggia oltre i sette milioni (pari al 10,8%), per poi rimangiarselo poche ore dopo l’inferocita replica di Belfast e Londra – sarebbe valsa la cadrega di Ursula von der Leyen. Ma “normali” questi tempi non sono affatto, e Ursula e la commissione a trazione tedesca – beatamente non elette l’una e l’altra – resteranno indisturbate dove sono.

Com’è noto, Bruxelles aveva sviolinato abbondantemente sul protocollo nordirlandese, che nella recente e ormai già lontanissima via crucis delle Brexit-negoziazioni fra le parti doveva garantire un indisturbato flusso di merci per evitare – introducendo un assai paventato confine fisico – il rischio di una deflagrazione del sopito conflitto settario fra repubblicani cattolici e unionisti protestanti. Solo per revocarlo a distanza, appunto, di un mese e per una ragione moralmente miserrima, facendo appunto scattare il famigerato articolo 16 che ne permette la sospensione, con buona pace della pace in Irlanda del Nord. Sotto il vello dell’agnello l’Ue ha mostrato improvvisamente le zanne della iena.

Una manciata di nanosecondi e arrivava la condanna di un’Arlene Foster (leader degli unionisti irlandesi, molto risentiti con Johnson perché, a differenza di Theresa May che ne aveva comprato il sostegno per disperazione, li aveva scaricati senza tante cerimonie) che lo definiva come «un atto di ostilità assolutamente incredibile». Alla seccata telefonata con richiesta di spiegazioni di Boris Johnson e del primo ministro irlandese Micheál Martin, faceva seguito la succitata marcia indietro della Commissione europea, provocando un festival di orgasmi nei tabloid lumpen-nazionalisti. Tradotto in lessico da commentariato editoriale: nel risultato parziale il liberoscambismo «pragmatico» di Londra trionfava sul protezionismo «ideologico» di Bruxelles quando, in realtà, a fronteggiarsi in tutta la loro sgradevolezza non sono altro che due vie al capitalismo: una moderna (nazionale), l’altra postmoderna (consorziale).

A un mese da Brexit i rapporti fra le controparti sono dunque nel segno di un cordiale attrito. Seppure non nei termini bellicosi di Foster, l’ostilità incombe ed è tenuta faticosamente a bada per il bene dei soliti «interessi comuni». Il pandemonio pandemico non poteva certo lenire il bruciore del recente distacco: casomai – com’è puntualmente accaduto alla prima occasione – aumentarlo. Finora, gli screzi fra i neodivorziati non sono stati che minuzie: pesce e fragole marcite, file bibliche di tir, pacchi postali dal costo esorbitante. Con un’eccezione particolare: l’affaire diplomatico del mancato riconoscimento da parte di Londra dell’ambasciatore dell’Ue, che agli occhi del Regno – e per la verità non irragionevolmente – non è né uno stato, né un super-stato: inutile dirlo, Bruxelles era enfia di sdegno.

Resta il fatto che il governo Johnson si è visto recapitare su un piatto d’argento un piccolo capitale propagandistico: il suo nazionalismo da colonnello Blimp (il protagonista di una celebre vignetta degli anni Trenta) è quasi impallidito rispetto a quello improvvisamente sfoderato da Bruxelles e a prescindere dalle rimostranze europee nei confronti del colosso farmaceutico anglo-svedese. L’iniziativa scomposta dell’Ue ha finito per mettere d’accordo leaver e remainer, i tories di Johnson con il molluscoide partito laburista targato Starmer, l’euromane Repubblica d’Irlanda e l’eurofoba Irlanda del Nord. Naturalmente, di fronte al resto del Sud del mondo che rischia l’estinzione per povertà ora vaccinale, entrambi le parti sono un accecante faro di moralità e d’ispirazione.

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