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A Tokyo l’universo lgbtq+ vince e lotta contro gli stereotipi

A Tokyo l’universo lgbtq+ vince e lotta contro gli stereotipiTom Daley – foto La Presse

Tokyo 2020 È l’edizione dei giochi definita della salute mentale e del coming out. Le parole di Hubbard e Bellandi

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 6 agosto 2021

Piovono like, pollici alzati e piccoli cuori sotto alle immagini di Tom Daley che fa la maglia (rosa) a bordo piscina mentre tifa per le sue compagne di squadra in gara a Tokyo 2020. Sui social di mezzo mondo, l’olimpionico che già a Londra 2012 rivelò pubblicamente la sua omosessualità, è sempre più una star dentro e fuori dalla vasca. Nella sua specialità, i tuffi, va ancora a medaglia (oro nella piattaforma sincro 10m, aspettando l’individuale) in queste strane Olimpiadi posticipate e senza pubblico conquistandosi anche i favori di chi dà più peso ai traguardi sportivi rispetto a quelli civili e culturali. Nell’edizione che è stata definita della salute mentale e dei coming out, mutatis mutandis, non è però detto che i due elementi non siano legati entrambi all’esigenza – e alla possibilità – che hanno le personalità sportive sotto i riflettori mediatici di cambiare il mondo partendo dall’esperienza personale.

PERCHÉ le Olimpiadi sono una grande piattaforma spettacolare, una cassa di risonanza senza pari per chiunque abbia un messaggio da inviare. E poiché tanto giornalismo sportivo ancora non riesce a prescindere dall’indagine nel privato, per lo più con un nauseante taglio familistico, allora tanto vale sfruttare l’occasione per mostrare al mondo realtà plurali, per dire che le lesbiche, i gay, le persone trans esistono tenacemente e sono al mondo per vivere, lottare e vincere.
Dopo Daley, a Rio 2016 c’era già stata, sempre nel nuoto, la “nostra” Rachele Bruni che aveva aperto un varco dedicando l’argento conquistato nella 10km in acque libere alla compagna Diletta Faina con l’entusiasmo di chi sente convergere in un trionfo tutte le gioie e i sacrifici fatti insieme in anni di preparazione. Se ne era molto parlato e così, quando quest’anno Lucilla Boari, bronzo nel tiro con l’arco, ha ricevuto in diretta tv un messaggio di congratulazioni che l’ha commossa, a chi le ha chiesto di chi fosse lei ha risposto semplicemente che era della sua ragazza, l’arciera Sanne de Laat,.

PER IL SITO statunitense outsports.com questa è l’edizione dei giochi con più partecipanti apertamente lgbtq+ di tutta la storia, più del triplo di Rio, e in netta maggioranza donne, con il calcio come disciplina più rappresentata, seguita dal rugby e dal basket. Forse è per via del vecchio stereotipo binario dell’«inversione» che si presta all’equazione donna virilizzata=alta prestazione contro quello dell’uomo femminilizzato=perdente. Ma, per un Fognini, che dopo aver perso si dà del «frocio» più per un tic linguistico, di cui poi s’è scusato, che per convinzione, c’è sempre Daley a smentire questa ipotesi insieme al collega canadese Markus Thormeyer, gay e non necessariamente effeminato.

PERCHÉ con buona pace della tv russa di stato che ha definito «disgustosi», «pervertiti» e un «abominio» atleti come la pesista trans Laurel Hubbard, il mondo è cambiato, siamo oltre ai ruoli, oltre gli stereotipi e lo ha dimostrato anche la pallavolista Paola Egonu dichiarando che è innamorata di una donna ma potrebbe anche capitarle di innamorarsi di un uomo e non sarebbe né grave né scandaloso. Anche la judoka Alice Bellandi ha raccontato il suo amore in un post su Instagram che la ritrae con la compagna: «Mi hai cambiato la vita, stravolto le priorità, aggiustato i sogni. Mi hai insegnato tanto, hai lasciato che ci scambiassimo i ruoli, hai leccato le mie ferite come se fossero tue. Sei la mia vittoria». Che gli omofobi di ogni latitudine si mettano l’anima in pace: anche tra coloro che vanno «più veloce, più in alto, più forte – insieme» c’è chi farà di tutto per difendere il diritto di una comunità a esistere, senza togliere niente a nessuno.

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