Un uomo esce dalla porta di ferro che delimita le scale di uno scantinato condominiale, attirato dal rumore della macchina. Il suo sguardo non è amichevole. A Soledar non vengono in molti, i bombardamenti sono costanti e il fronte è vicino. Quando l’uomo legge la scritta «press» sul giubbotto antiproiettile inizia a imprecare sbattendosi le mani sulle anche, prima di scomparire di nuovo in cantina. Piove a dirotto e tutt’intorno si notano boccioni di plastica e secchi sistemati sotto le lamiere a raccogliere l’acqua piovana. Da uno di questi tetti di lamiera esce un gran fumo bianco e si intravede una massiccia figura che armeggia con un pentolone. È una signora anziana con i capelli corti che sbatte con veemenza piccoli ciocchi di legna dentro un piccolo braciere. La signora è coperta da diversi strati di vestiti, tutti di colori diversi e ha al piede un paio di pantofole. Si vede che non riesce a stare senza far nulla e si sposta freneticamente da un’attività all’altra guardandomi di traverso mentre un’altra donna sulla quarantina resta seduta su una panca a mangiare del borscht. Sono madre e figlia, la più anziana si chiama Yelena, l’altra Irina.

DOPO POCO si sciolgono, mi invitano a mangiare e si offendono un po’ quando rifiuto. «È buono!» insiste Yelena, ma non lo ripete due volte e chiede una sigaretta. «Vedi come viviamo?» attacca a parlare Irina, che subito viene interrotta dalla madre, «non c’è acqua, non c’è luce, non c’è gas, viviamo in cantina da 5 mesi». «5 mesi» ripete Irina. Nel loro comprensorio sono rimasti in 24, tra cui 4 bambini «uomini non ce ne sono, giusto?». «Uomini… magari!» dice Irina ridendo e la madre inizia a ridere con lei, con un timbro rauco e secco, scoprendo i pochi denti che le sono rimasti. «Guarda là, c’era l’ospedale, guarda!». Mi accompagna di forza verso un edificio sventrato da un bombardamento. «Ora non c’è più il dottore, le farmacie sono tutte chiuse, se ci ammaliamo come si fa?». Pronuncia queste frasi con rabbia, nella sua voce non c’è autocommiserazione.

LE ESPLOSIONI sembrano lasciarla indifferente ma quando si sente un sibilo si ferma alzando gli occhi al cielo. Tutto il suo volto trasuda tensione, come se potesse visualizzare la traiettoria del colpo. Irina la osserva atterrita. Si tratta di 3, forse 4 secondi, poi Yelena ricomincia girare l’acqua nella pentola.
Perché non se ne vanno? «Perché costa» risponde secca. La figlia racconta che più volte sono venuti i minibus delle evacuazioni ma che loro non si fidano, «vai a Dnipro, a Kiev a fare che?». Quella è casa loro, non hanno altro. Eppure tra Bakhmutske, Bakhmut e Soledar l’artiglieria russa e quella ucraina si scambiano colpi senza sosta. Uno degli obiettivi delle forze di Mosca è di sfondare le linee difensive degli ucraini e prendere il possesso dello snodo che prosegue dritto verso Slovjansk e la roccaforte Kramatorsk.

NEI MESI siamo tornati diverse volte a Soledar trovando ogni volta una situazione peggiore. Ieri la miniera di sale che è il centro produttivo della zona appariva come un cumulo di pezzi di lamiera tra i resti degli alti edifici industriali ancora in piedi; le strade come un cimitero di alberi, cavi dell’alta tensione, detriti di ogni genere e missili inesplosi. L’atmosfera generale è quella di un villaggio fantasma e per vedere un essere umano bisogna entrare nei comprensori fino alle porte delle cantine. «Soldati russi ne avete mai visti?» chiedo alle donne che rispondono di no. «Però li sentite» dico accennando ai boati costanti che rimbombano a volte più lontano a volte a pochissima distanza. «Questi sono gli ucraini!» dice Yelena. «I colpi vengono da lì (indica con il braccio) e i russi sono di là (indica all’opposto); non possono essere i russi!». Ma perché gli ucraini dovrebbero bombardarli? Yelena fa segno di lasciar perdere e Irina sorride sconsolata, per cortesia e per evitare di mettersi a piangere, cosa che le riesce a metà.
Sono al limite, come tutti gli altri che vivono qui. Hanno paura di spostarsi altrove ma vivono nel terrore di morire sepolti a casa loro consapevoli che l’inverno deve ancora arrivare e che finché dura la guerra per loro andrà sempre peggio.