A «Rimini» d’inverno, la ballata di Richie Bravo
Berlinale In concorso il nuovo film di Ulrich Seidl, conferma la lucidità del progetto artistico del regista austriaco
Berlinale In concorso il nuovo film di Ulrich Seidl, conferma la lucidità del progetto artistico del regista austriaco
Rimini, d’inverno, può essere grigia di nebbia. E può capitare che ci nevichi pure. Nel 2018 cadeva la più abbondante nevicata degli ultimi anni e Ulrich Seidl, che solo qualche mese prima aveva rimandato a casa la troupe, non si lascia sfuggire l’occasione e di corsa riorganizza il set di Rimini. Le sorti di un film meditato da anni insieme a Veronika Franz si giocano nell’arco di un paio di settimane: Rimini d’inverno – sottosopra e pure così riconoscibile – è il mondo alla rovescia dove la disperata fuga dalla quotidianità dei suoi protagonisti trova un rilievo inusitato. Sulla spiaggia, invece delle consuete esuberanze ormonali di giovanili ardori, si vedono solo scure figure intabarrate che percorrono più rapidamente possibile il tratto che le separa da un rifugio caldo e un po’ più luminoso. Tra queste spicca la sagoma imponente di Richie Bravo (interpretato da Michael Thomas, che era già in Import/Export e in Hope, terzo episodio della trilogia Paradise), cantante da un po’ di tempo sul viale del tramonto, ma sempre capace di offrire calore ed eventualmente sesso a pagamento alle fans attempate che applaudono i suoi concertini. Sotto il suo ampio cappotto di pelliccia veste solo la canotta bianca d’ordinanza, in modo da potere rapidamente convertire l’animalità esibita all’esterno con una seminudità che suscita desideri tutt’altro che inconfessabili.
COME SEMPRE, Seidl si impegna a rendere sontuosamente visibile quanto è normalmente coperto da tabù sociali, pubbliche decenze e profonde paure: le pulsioni che le esibizioni di Richie Bravo scatenano nelle pensionate che svernano in riviera sono fondamentalmente le stesse che coinvolgono le ragazzine innamorate dei cantanti delle boy band, ugualmente sproporzionate e ridicole e ugualmente comprensibili e umanissime. A fare la differenza è la prossimità della morte, il tabù per eccellenza, che in Rimini si presenta già nell’incipit, quando Richie raggiunge la città natale per i funerali della madre, e continua a punteggiare il racconto con brevi segmenti dedicati al padre il quale, ricoverato in una casa di riposo, è sempre più preda della demenza e di un passato lugubre da cui sembra impossibile liberarsi. Anche se è difficile riconoscere in questa esibizione un intento liberatorio, non si può negare che il film sia molto divertente e per nulla morboso: attraverso la vitalità cialtronesca di Richie e il suo discutibile carisma – in questo aiutato dal suo repertorio Schlager, sdolcinato ma autenticamente popolare – Seidl mette a nudo una modalità del maschile ridicola ma perfettamente complementare al patetico femminile.
E, COME SEMPRE, il suo sguardo è pietoso: la morte è paziente ma implacabile: assolvere è un dovere, in attesa che emergenze nuove arrivino a travolgere la vita ed equilibri morali faticosamente raggiunti. Con l’arrivo di una figlia dimenticata, Richie abbandona ogni ritegno e, per riparare a sacri doveri familiari non onorati, finisce per commettere un crimine ignobile. Il film si raffredda, sfida l’indifferenza, arriva l’estate: la pacifica invasione mediorientale non porta rinnovamenti.
Rimini conferma il pessimismo e la lucidità di Seidl oltre che la coerenza del suo progetto registico: il suo è il migliore lavoro visto finora alla Berlinale.
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