A Mirafiori ora, col senno del poi
L'Ultima A 13 anni dal referendum Marchionne, Calenda e De Benedetti si accorgono che l’auto sta scappando da Torino. La Fiom rivendica la sua lotta e la richiesta di un secondo produttore
L'Ultima A 13 anni dal referendum Marchionne, Calenda e De Benedetti si accorgono che l’auto sta scappando da Torino. La Fiom rivendica la sua lotta e la richiesta di un secondo produttore
Sarà la congiunzione astrale tra il numero 13 degli anni passati e l’anno bisestile ma fa impressione rivedere le immagini del referendum su Mirafiori del 12 gennaio 2011 e poi leggere le dichiarazioni recenti di molti politici e commentatori. «Deindustrializzazione dell’Italia», grida Carlo Calenda; «l’auto sta fuggendo da Torino», ragiona Carlo De Benedetti.
PECCATO CHE ENTRAMBI in quel freddo gennaio di 13 anni fa appoggiassero la rivoluzione di Sergio Marchionne, così come gran parte dell’opinione pubblica, e che – D’Alema e Fassino compresi – fecero campagna elettorale per spiegare agli operai di Mirafiori che dovevano votare «Sì» al referendum che metteva in palio lo scambio lavoro in cambio di diritti: la promessa di «salari tedeschi» legata alla rinuncia «a pochi minuti di pausa e a una organizzazione più razionale del lavoro».
Le recenti dichiarazioni di Calenda e De Benedetti tredici anni fa uscivano pari pari dalla bocca di molti operai della Fiom che denunciavano come «comunque vada questo referendum c’è poco futuro qua a Mirafiori, mi dispiace soprattutto per i giovani», commentava una operaia Fiat da 33 anni, intervistata nei giorni precedenti dal grande circo mediatico che si accese fuori dai cancelli in quei giorni.
Ancor più incredibile è ascoltare l’allora responsabile auto della Fiom Giorgio Airaudo parlare di secondo produttore di auto contro il monopolio della Fiat: «Noi sappiamo fare le auto da 100 anni e se il mercato si apre, si apre per tutti, non solo per la Fiat; per troppi anni è stata la Fiat a non voler fare entrare altri, se qualcuno vuole fare le auto a Torino, venga e rimanga pure la Fiat: meglio in due che una sola», diceva davanti alle telecamere in una delle tante dichiarazioni di quei giorni.
La stessa richiesta che poche settimane fa l’hanno sottoscritto unitariamente anche Fim Cisl e Uilm: sindacati che invece nel 2011 appoggiarono Marchionne, aprendo a un’apartheid nei confronti della Fiom che non è ancora finita, neanche sotto Stellantis, con il contratto aziendale – il famigerato Ccsl – che è rimasto «separato».
E allora viene normale oggi per Nina Leone e tanti altri operai della Fiom mangiarsi le mani dicendo: «Se ci avessero ascoltato allora, oggi non saremmo in questa situazione».
Quell’accordo ci peggiorò la vita: ritmi molto più alti e flessibilità totale. Non portò lavoro, solo tanti anni di cig. Taveres investe solo nelle buonuscite per ridurci e non crede nell’elettrico
Nina Leone in questi 13 anni è rimasta al suo posto: alle Carrozzerie montaggio di Mirafiori. Allora era delegata Fiom Cgil, ruolo che per lunghi anni non è più esistito semplicemente perché l’azienda non ha più riconosciuto il suo sindacato in quanto non «firmatario» dell’accordo che ratificò il referendum Marchionne. Finché la Corte costituzionale dichiarò illegittima quella norma e la Fiom – con le bandiere rosse e i ritratti di Di Vittorio che furono per due anni fatti uscire dalle salette sindacali – poté tornare in fabbrica, seppur senza più elezioni dei delegati, ma solo per nomina dei sindacati.
«SÌ, FA RABBIA SENTIRE CHE OGGI certi personaggi si accorgano che la produzione di auto non c’è più a Torino. Io, come tutti, dopo quel referendum ho dovuto subire la nuova “metrica” imposta da Marchionne in catena di montaggio: più particolari da montare nei 420 minuti di turno con aumento dei lassi di tempo in cui la linea di montaggio può essere saturata. Sembra difficile da capire, ma assieme alla riduzione delle pause, significa che lavori a un ritmo molto più alto e, specie per chi è della mia generazione e inizia ad avere degli anni, significa non farcela, avere acciacchi continui. Io ora, non mi vergogno di dirlo, ho 60 anni e con la odiosa riforma Fornero andrò in pensione, si spera, fra due anni a ben 41 anni e 10 mesi di contributi, molti di più dei colleghi della generazione precedente, con le ossa molto più rotte».
LA PROMESSA DEL MANAGER con il maglioncino di «lavoro» e «salari tedeschi» è stata completamente disattesa. «Dal 2012 al 2016 abbiamo fatto tantissima cassa integrazione, che inciderà negativamente sull’assegno di pensione, lavorando due giorni al mese. Poi è arrivata la produzione della Maserati Levante, un auto per ricchi, che ha dato un po’ di lavoro ma sempre nel principio di Marchionne di massima flessibilità: quando c’è lavoro si deve lavorare anche la notte e la domenica, senza fiatare. Questo è durato solo per un paio d’anni, ma poi siamo tornati in cassa», ricorda Nina.
Nel frattempo, attorno a lei, in reparto e in fabbrica, il numero di colleghi è sempre sceso. «Il maggior investimento fatto dall’azienda in questi anni è stato sugli incentivi all’esodo: quest’anno davano anche 80 mila euro per chi usciva quattro anni prima della pensione. Io non rientravo nella categoria, capisco però chi l’ha fatto: in questa situazione non vedi l’ora di andartene».
IL GIUDIZIO DI NINA sul piano Marchionne è la conferma della giustezza del suo «No» al referendum di 13 anni fa: «È stato fallimentare per l’Italia e per noi operai, gli unici contenti sono stati gli Agnelli e John Elkann. Marchionne ha investito solo in America perché giustamente Obama lo ha obbligato a produrre lì, qui da noi nessun governo lo ha fatto», osserva amara Nina.
Non mi ricordavo di aver detto del monopolio Fiat. Oggi in Stellantis l’Italia è la 4ª fila e l’8° produttore in Europa. Serve invece far leva sulla componentistica che rischia di sparire
Questa mattina la Fiom di Torino ha deciso di ricordare il tredicesimo anniversario con un convegno: “Il referendum di Mirafiori: Fiom, la forza di una scelta”. Il referendum interessò 5.130 lavoratori e i sì vinsero per poco – 54% contro il 46% – con il voto decisivo degli impiegati. In cambio di quell’accordo, che riduceva le pause, modificava i turni e limitava il diritto di sciopero, Marchionne aveva promesso piena occupazione, salari più alti e tanti modelli: uno scenario che non si è mai realizzato», osserva la Fiom di Torino.
Quell’«incredibile, straordinario dignitoso, orgoglioso 46% di No dovrebbe far riflettere Marchionne che ha vinto solo per il voto dei capi e degli impiegati», sottolineò a caldo Giorgio Airaudo.
«Devo essere sincero, non mi ricordavo di aver fatto quella dichiarazione sul “secondo produttore di auto” e quando ho rivisto il filmato ha colpito anche me», ricorda oggi. Parole sfortunatamente profetiche che oggi tornano di gran moda. «Stiamo ancora pagando l’errore di tanti governi che non hanno fatto un piano della mobilità che preparasse il futuro dell’auto elettrica. Questo fa sì che siamo scesi costantemente nella produzione di auto diventando l’ottavo gruppo in Europa, siamo la quarta fila in Stellantis. Stanno usando la cassa integrazione sempre di più, non ci sono modelli», sottolinea Airaudo.
ORA, DA SEGRETARIO DELLA CGIL Piemonte, il suo sguardo si allarga. «Le imprese di componentistica per auto, delle quali il 50% è concentrato in Piemonte, stanno ricevendo una comunicazione da Stellantis: gli chiede di riposizionarsi con un socio low cost in Asia e in Cina. Questo sta producendo il disfacimento dell’intero settore della componentistica che invece negli anni scorsi pensava di salvarsi perché si era riconvertita in buona parte su Peugeout. E il dramma occupazionale lo osserviamo, a partire dalla Lear che fa sedili».
Per salvare Mirafiori e la componentistica dunque serve che si avveri in fretta la profezia di un secondo produttore a Torino: «L’idea che Stellantis voglia l’esclusiva in Italia non è accettabile perché compete con altri gruppi in tutti gli altri paesi europei: in Germania, in Francia e in Spagna», continua Airaudo. «La strada per salvare la componentistica non è la Zes (la zona economica speciale, ndr): i finanziamenti a pioggia non portano lavoro di qualità, qua in Piemonte servono strumenti specifici, abbiamo bisogno di tenere l’intero sistema, l’intera filiera con i patti di convergenza. Il primo produttore cinese di auto, la Byd, ha aperto una fabbrica in Ungheria, ma là non c’è la componentistica che abbiamo in Piemonte, questo aspetto va usato per convincerli a venire qua», conclude Airaudo.
Nina Leone ha un altro primato. È l’unica esponente della Fiom ad aver incontrato Carlo Tavares dalla fusione tra Psa e Fca del 2021 a oggi, cosa non riuscita neanche al segretario generale Michele De Palma o l’allora segretario e ora segretario Cgil Maurizio Landini: l’ad di Stellantis non si è mai presentato al tavolo sull’auto convocato da Urso al ministero o alla trattativa sul contratto aziendale. Tavares in piena ipocrisia, le ha stretto la mano come «collega di lavoro», neanche fosse anche lui un operaio. «L’ho incontrato a Grugliasco (fabbrica che sarà chiusa a breve, ndr) e ho capito che ha molto in comune con Marchionne. Noi abbiamo pagato la contrarietà all’auto elettrica (Marchionne nel 2017 disse che il futuro era il metano, ndr) e i ritardi nella tecnologia ma anche Tavares ci ha detto che è l’Unione europea che ci chiede di fare l’elettrico e il suo unico scopo è fare gli interessi degli azionisti. Così, anche se Torino ha un ottimo Politecnico che potrebbe dire la sua in fatto di batterie, tutta la progettazione è oramai lontano da qua. Così come il futuro dell’auto. Ci resta solo il turismo, ma con il turismo il lavoro è poco e non strutturale», conclude amara Nina.
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