La lotta Gkn, grido collettivo
Delocalizzazioni Tre anni di autogestione da parte del Collettivo di fabbrica a Campi Bisenzio. Ma anche di tutti i movimenti che hanno scelto di stargli accanto. Il racconto in un libro, che qui anticipiamo
Delocalizzazioni Tre anni di autogestione da parte del Collettivo di fabbrica a Campi Bisenzio. Ma anche di tutti i movimenti che hanno scelto di stargli accanto. Il racconto in un libro, che qui anticipiamo
Quando nel luglio 2021 è arrivata la notizia della chiusura della fabbrica, è stato facile ridurre tutto all’indignazione nei confronti di un fondo finanziario come Melrose. Ma quel fondo finanziario è il portato di un mondo intero. Che, per quella che è stata la sua evoluzione – o forse meglio dire involuzione – ci ha presentato il conto, chiudendo l’azienda. Il fatto che per riaprirla ci tocchi pensare a un intero mondo nuovo ne è la controprova.
La nostra vicenda chiama in causa speculazione e gentrificazione. La ex Gkn apriva a Campi Bisenzio nel 1994, con lo spostamento della Fiat che prima si trovava a nord di Firenze, quartiere Novoli. Il primo conto da pagare quindi è quello con la rendita, che di colpo comunica che bisogna farsi più in là: evidentemente la zona andava messa a reddito in modo più proficuo che con un’officina di metalmeccanici, tant’è vero che è stata il centro di un vero e proprio assalto immobiliare.
Assaggio di gentrificazione che, di lì a breve, avrebbe riguardato tutto. L’altro mondo che ha presentato il conto è l’ambiente: c’era il verde, a Campi Bisenzio, è stato asfaltato per farci una fabbrica. Ma con la stessa rapidità con cui un pezzo di territorio è stato ceduto all’impresa perché c’era lavoro, quello stesso lavoro è stato portato via una mattina di luglio. E quello stesso mondo che non concepisce il territorio come un bene comune presenta il conto quando la fabbrica viene chiusa. Si rifiuta di capire che adesso bisogna trovare un’alternativa, perché è stato cambiato il territorio, non si può lasciarlo in stato di abbandono.
LA GKN FIRENZE ha sempre lavorato in stragrande maggioranza per gli stabilimenti italiani di Stellantis: rappresentavano l’85% delle commesse. L’altro mondo che ha presentato il conto è quindi la politica economica di questo Paese e i suoi problemi con l’automotive: un settore che ha abituato il principale player, e tutto quello che gli gira intorno, a un uso smodato di fondi pubblici senza mai comunicare progetti, piani industriali, dati concreti. Ancora, ha presentato il conto la finanziarizzazione, cioè la trasformazione dell’economia da produzione di cose reali a moltiplicazione di soldi fittizi, con un’enorme forza e un esercito di intermediari locali: perché, a ben guardare, ogni volta che si chiude una fabbrica vengono fuori storie di immobiliaristi, speculazioni, operazioni non chiare.
Infine, paradossalmente, ha presentato il conto anche l’illusione che un pezzo della classe operaia, impiegatizia, o lavoratrice tout court, che in questi decenni è riuscita a mantenere condizioni contrattuali migliori di altri, non debba uscire dal modello di vita qualunquistico e consumistico. Perché la verità è che abbiamo accettato tutto, abbiamo barattato ogni cosa che avevamo, e quando abbiamo iniziato ad avere meno da barattare abbiamo comunque fatto spallucce, finché non ci siamo svegliati con un problema bello grande. E non sarebbe giusto attribuire responsabilità individuali in questa debacle, perché si tratta ovviamente di meccanismi in cui il singolo soccombe. Ma è giusto dire che le scelte collettive si compongono anche di decisioni individuali.(…)
Come si concretizza il risveglio? Passare dalle idee all’azione è sempre la parte più complessa, e quella in cui si disperdono le migliori intenzioni.
Quando a luglio 2021 il capitale scappa – perché nessuno l’ha cacciato, è bene continuare a ripeterlo: sceglie di scappare – l’assemblea permanente e la comunità difendono la fabbrica, la preservano, la abbracciano e si abbracciano. Siamo in quella stagione incredibile in cui abbiamo lo stipendio pieno ma non ci ridanno il lavoro, quindi il nostro lavoro diventa la progettazione di un futuro: lì si creano una serie di fenomeni che non saranno la società nuova, ma che in qualche modo mostrano come le cose potrebbero anche funzionare diversamente. Si creano momenti irripetibili: ci sono persone che vengono in fabbrica ad aiutarci a passare il tempo in maniera costruttiva, si tengono discussioni in piena notte tra un operaio e un dottorando in antropologia, una compagna transgender, i membri dell’Associazione don Milani e moltissime altre e altri. Il territorio permette ai corpi degli operai di resistere.
SIAMO STATI FORTUNATI, in parte. Nella lotta conta anche questo, non sono i singoli a determinare tutto. Qui c’è una tradizione partigiana viva, non è stata mummificata come in molte altre parti del Paese; ci sono una tradizione sindacale e anche mutualistica che contano: se avessero chiuso un’impresa in una borgata di qualche altra città, non so se ci sarebbero state tutte queste persone a fare la staffetta per portare cibo, a partecipare a discussioni e ad assemblee spontanee che a quel punto non riguardavano più solo noi. Se la lotta in quella fase decolla e regge, e se poi ha retto per tutti questi tre anni, è perché un sacco di gente sa di non aver la forza di fare qualcosa da sola, ma ha capito che appoggiandoci uno con l’altro quella forza si crea; la invitiamo a unirsi a noi con questa consapevolezza, mettendo la mobilitazione a disposizione dei loro problemi.
Quando poi, dopo i primi sei mesi, Borgomeo arriva e in teoria normalizza la vita della fabbrica – limitandosi a cambiarle il nome e a logorarci prima attraverso l’eterno rinvio delle promesse e poi cercando di farci dimettere per fame – diventa chiaro a tutti che in questo nuovo scontro con il capitale va coinvolta l’intera società. E allora l’assemblea permanente fa un’altra cosa: si apre completamente all’esterno e si fa contaminare da chiunque ritenga che la nostra lotta lo rappresenti. Non perché vive le stesse vicende o fa lo stesso mestiere, bensì perché in quel momento si produce una faglia. Noi possiamo vincere solo se la lotta non è fatta esclusivamente per i nostri posti di lavoro ma se i nostri posti di lavoro diventano un elemento di riscatto per tutti: perché per piegare il capitale, anche su una singola fabbrica, serve un tale cambiamento dei rapporti di forza che non può essere ottenuto da 400 metalmeccanici, ma da tutte le persone che si sono unite alla lotta. Tutti insieme «Insorgiamo», che è il nostro grido di battaglia e ci piace perché è un noi, un collettivo.
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