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A Leopoli «porto sicuro» ormai suonano le sirene

A Leopoli «porto sicuro» ormai suonano le sireneAlla stazione di Kiev nel tentativo di salire su un treno diretto a Leopoli – Ap/Emilio Morenatti

Guerra in Ucraina Reportage dalla città al confine con la Polonia. Gli abitanti si organizzano per dare assistenza ai rifugiati in fuga dall’est del paese. Ma la guerra si avvicina

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 5 marzo 2022

Una statua di Afrodite impacchettata come se dovesse essere portata via per un trasloco. È questa l’immagine che offre piazza Rynok, nel centro di Leopoli, vicino al palazzo dell’amministrazione dell’oblast locale. Lo stallo lascia indovinare di che personaggio mitologico si tratti ma, a parte quello, tra la dea dell’amore e un qualcosa di simile a un uovo fuori dalla cattedrale c’è poca differenza.

La pista da pattinaggio sul ghiaccio è ancora montata ma «nessuno ci va da giorni», racconta Dana, diretta a un centro di smistamento di cibo per rifugiati. E infatti gli striscioni rosso acceso e le pubblicità enfatiche stonano decisamente con l’atmosfera generale e il cielo grigio.

L’Ucraina occidentale non è così tranquilla come si potrebbe pensare. L’afflusso costante di profughi dalle città sotto attacco ha dato agli abitanti la percezione chiara che la guerra non è così lontana. Anche se, rispetto a Kiev, sembra di essere in un altro Paese o in un’altra epoca storica.

Sul pavè delle vie del centro, tra una rotaia e l’altra dei tram in stile retrò e in mezzo alle palazzine basse tardo ottocentesche che danno a Leopoli l’aria di un centro imperiale dell’epoca degli Asburgo d’Austria, la giornata è stata frenetica. Controlli di documenti all’ingresso di quasi tutti i locali pubblici, sorveglianza militare nelle strade, gruppi di volontari armati che si danno il cambio ai check-point in entrata e in uscita dal centro urbano. E le prime fortificazioni lungo le arterie stradali principali.

Dallo scoppio della guerra migliaia e migliaia di sfollati sono giunti qui da tutta l’Ucraina per cercare riparo in quello che è generalmente percepito come un porto sicuro, o per proseguire verso la Polonia e la Slovacchia. «Giovedì ne sono arrivati tantissimi, non sapevamo cosa fare», racconta Stefko, volontario in un centro di accoglienza istituito in un locale dove fino alla sera prima si organizzavano feste di musica elettronica.

«Poi quando ci siamo resi conto di quanto terrorizzata fosse questa gente e di cosa stava succedendo nell’est ci siamo attivati, all’inizio insieme a qualche amico, per dargli almeno un posto dove stare». Da quel momento gli abitanti del quartiere hanno iniziato a portare cibo e coperte, pannolini per i bambini, stufe e ogni genere di cose che «potesse aiutare queste persone a smettere di tremare».

Ora, a più di una settimana da quel fatidico 24 febbraio, Stefko e gli altri 15 volontari sono organizzatissimi: hanno un calendario con i turni, un centro di raccolta permanente, contatti con il municipio e alcune famiglie in difficoltà a Kiev e Kherson, attività ludiche per i bambini e sono riusciti perfino a trovare un furgone per fare la spola con la Polonia una volta ogni due giorni.

Lì, altre associazioni di volontariato raccolgono pacchi con beni di prima necessità e aiuti vari e li affidano ai ragazzi che poi li immagazzinano al centro. Sono riusciti persino a lanciare una petizione per raccogliere munizioni da inviare a Kiev che tengono dietro una grata chiusa con un lucchetto.

Artem, figlio di ucraini ma emigrato in Italia dopo il 2014 e tornato qui per «fare la sua parte», è il delegato del battaglione di difesa territoriale locale e controlla i documenti di chi entra nel centro, oltre a custodire le munizioni. «La situazione con i sabotatori russi si fa sempre più difficile – racconta – L’altro giorno proprio qui vicino ne hanno scoperto uno che dentro un peluche teneva nascosto un drone per tracciare la zona e inviare informazioni alle truppe russe».

E non è solo la paura dei sabotatori ad accomunare Leopoli alle altre città in guerra, ma anche il suono tremendo delle sirene. Stamane ci ha svegliato e l’abbiamo riconosciuto subito. Forse perché sono ancora all’inizio qui tutti rispettano scrupolosamente la consegna di scendere nei rifugi. A Kiev ormai non si stupivano neanche più se camminavi in strada mentre suonava. Ma qui siamo all’inizio. La paura è arrivata, raccontata dagli sfollati e dai media; tuttavia, deve ancora assumere una forma chiara.

Tutti in città oggi parlano dell’incendio divampato alla centrale nucleare di Zaporizhzhia. L’Agenzia internazionale dell’Energia atomica ha rassicurato: i regolatori installati nella centrale ucraina non hanno segnalato nessun cambio nei livelli di razioni dell’area. Ma a chi vive vicino a Zaporizhzhia non basta certo questo per rasserenarsi.

A metà giornata, mentre dalle redazioni di tutto il mondo arrivavano report dettagliati sul rischio di un disastro nucleare «sei volte maggiore a quello di Chernobyl», secondo le parole dello stesso presidente ucraino Zelensky, un’altra immagine si è imposta in questa guerra che ha fatto dell’esposizione mediatica un suo tratto distintivo.

La fregata Hetman Sahaidachny, ormeggiata nel porto di Mykolaiv per lavori di manutenzione, è stata affondata. Ma non da un attacco russo. Quando le autorità locali si sono rese conto che la città stava per capitolare, hanno dato l’ordine di affondare la nave per evitare che cadesse nelle mani del nemico. Almeno è questo ciò che ha spiegato il ministro della difesa, Oleksy Reznikov.

Ma nella trattoria dove ci siamo fermati per pranzare, dopo tanti giorni di cibo razionato e code di fronte all’unico alimentari del quartiere aperto a Kiev, la televisione annunciava che in seguito a un attacco russo nella città di Chernihiv, 38 uomini e 9 donne, tutti civili, sono rimasti uccisi. Subito dopo, il telegiornale ha mostrato le immagini del «gigante dei cieli», l’Antonov An-225 Mriya, cimelio dell’aviazione mondiale custodito nell’aeroporto di Hostomel, in pezzi sulla pista. Strano accostamento, ma sembrava che il giornalista fosse sinceramente contrito all’idea che l’aereo più grande del mondo fosse stato distrutto.

D’altronde, per tutto il giorno, tra una dichiarazione di Lukashenko e un bollettino di guerra, l’argomento principale è stato sempre lo stesso: i corridoi umanitari. Chi li organizzerà? Chi si occuperà di trovare una forma che sia congeniale a entrambi gli eserciti? A Leopoli lo sanno, per il momento è questa la notizia che li riguarda più da vicino.

Se effettivamente sarà permesso agli ucraini dei diversi fronti di lasciare il Paese, passeranno tutti da qui. Si parla di almeno altri due milioni di individui, oltre al milione già censito dalle Nazioni unite ieri.

Prima della guerra quasi tutti in Ucraina dicevano di essere pronti a combattere e di non aver paura dell’esercito russo. Di questo stanno dando prova nei fatti. Ma nessuno ha mai parlato di profughi, di sfollati, di rifugiati. Chi è pronto a far fronte a questa nuova catastrofe umanitaria? Forse a Kiev, a Bruxelles, a Roma e nelle altre capitali europee non si considera il fatto che finita una guerra potrebbe iniziarne subito un’altra. Ed è sempre la stessa storia: non saranno gli oligarchi russi a pagarne il prezzo, non il presidente Putin, ma la povera gente.

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