A Francoforte si riparte dalle storie
Buchmesse Al via la fiera internazionale del libro tedesco, con l'Italia paese ospite. Un'intervista Intervista con Porter Anderson, direttore di «Publishing Perspectives». «Un cambiamento da tenere d’occhio? I leader dei principali gruppi stanno creando nuove società per dare priorità al benessere degli autori. Si tratta di un esodo silenzioso dai grandi marchi? Non ancora»
Buchmesse Al via la fiera internazionale del libro tedesco, con l'Italia paese ospite. Un'intervista Intervista con Porter Anderson, direttore di «Publishing Perspectives». «Un cambiamento da tenere d’occhio? I leader dei principali gruppi stanno creando nuove società per dare priorità al benessere degli autori. Si tratta di un esodo silenzioso dai grandi marchi? Non ancora»
Si apre oggi la settantaseiesima edizione della Fiera di Francoforte, appuntamento fisso per gli editori di tutto il mondo e, quest’anno, di particolare importanza per l’Italia, paese ospite della manifestazione per la seconda volta dal 1988. Di questa vetrina, ma soprattutto degli equilibri in gioco in un momento così complesso, fra conflitti sempre più laceranti e calo generalizzato della lettura, abbiamo parlato con Porter Anderson, direttore di Publishing Perspectives, il quotidiano indipendente online di informazione editoriale internazionale sostenuto dalla stessa Buchmesse.
La Fiera di Francoforte è il più importante luogo di incontro per gli editori di tutti i paesi. Ritiene che possa determinare le tendenze future del settore?
La Buchmesse non è solo la più importante tra le fiere dell’editoria mondiale, ma anche la più grande, e ciò significa che la sua portata è straordinaria. I paesi rappresentati in varie modalità sono oltre cento e l’impatto delle questioni discusse e delle tendenze individuate è enorme. Nel nostro settore, il giornalismo, è opinione comune che vi sia la responsabilità di «stabilire l’agenda» delle notizie per una comunità di lettori, spettatori, ascoltatori o follower. In certo senso, questo è il ruolo della Buchmesse e lo conferma l’attenzione dei più influenti leader mondiali del settore anche in questa edizione.
Nel 2024 l’Italia è il paese ospite della Buchmesse. Come valuta la sua presenza nel mercato globale? E quali sono le strategie più efficaci per sfruttare al meglio questa opportunità?
A 36 anni dal 1988 l’Italia torna come ospite d’onore a Francoforte, e sono evidenti i progressi compiuti in questo arco di tempo. Il mercato italiano è al quarto posto in Europa e presenta uno dei portafogli strutturali più stabili: grandi gruppi come Mondadori al primo posto e GeMS al secondo, seguiti da una coorte di medie case editrici di notevole valore e da una schiera di piccoli editori molto attivi. Questo è il motivo per cui Publishing Perspectives si occupa tanto del mercato italiano: oltre ai grandi nomi della storia della letteratura, conta il fatto che l’editoria italiana attuale è agile, ben organizzata e aggressiva nel suo approccio verso la base dei lettori come nel rapporto con le istituzioni a Roma. Non a caso l’Associazione italiana editori (Aie) è, nel mondo, uno degli enti più importanti all’interno della categoria. Lo prova la recente nomina di Giovanni Hoepli a vicepresidente dell’International Publishers Association, che ha sede a Ginevra e di cui, secondo la tradizione dell’Ipa, Hoepli dovrebbe diventare presidente fra due anni.
Ma accanto a lui, vorrei citare Ricardo Franco Levi, oggi a capo della Federazione degli editori europei, che a suo tempo, come presidente dell’Aie, è riuscito a far sì che il settore riemergesse rafforzato dalla pandemia e che ha sostenuto il ruolo dell’editoria libraria come motore della cultura italiana; e Innocenzo Cipolletta, suo successore alla presidenza dell’Aie, che – anche come presidente di Confindustria cultura Italia – conosce i canali di potere delle tendenze economiche e ha l’esperienza per guidare la vostra editoria in quella che potrebbe essere una nuova ascesa della sua visibilità nel mondo. Quanto alle strategie future, per aumentare la sua presenza sulla scena globale l’editoria italiana dovrebbe fare una sola cosa: legare la letteratura all’amore che tutti hanno per l’Italia. Ovunque andiate, troverete passione per la cultura italiana: arti visive, cinema, musica, teatro, cucina… Portate con voi i libri e fate sapere al mondo che la letteratura è parte integrante del carattere culturale italiano.
I dati recenti mostrano che in tanti paesi, Italia inclusa, si comprano meno libri e si legge meno. Come si può contrastare questa tendenza?
Certo, nel mondo meraviglioso delle narrazioni digitali offerte dal cinema e dalla televisione in streaming – tra i più alti intrattenimenti di questo tipo mai realizzati, una nuova età dell’oro – è più difficile per un libro trattenere qualcuno sulla sedia. La visualità crea il mondo di una storia per noi, ce lo fa vedere. La lettura richiede che sia l’immaginazione a creare a movie in my mind, «un film nella mia mente», come si dice nello splendido musical Miss Saigon. A noi umani piace il bello che non richiede sforzo, ma leggere significa dar vita al nostro film, al nostro personale universo narrativo. Entrambi i settori vanno sostenuti, ma è nei libri che di solito si trova la genesi di una storia. Due cose, però, vanno fatte con urgenza, non solo in Italia. Innanzitutto, appunto, aiutare il pubblico a capire che i libri sono la fonte della maggior parte delle storie, ed è lì che registi e produttori tv cercano le idee che diventeranno i film e le serie sui nostri schermi. E poi, riacchiappare i maschi. Negli ultimi anni l’industria editoriale si è concentrata su libri, in alcuni casi splendidi, pensati per le lettrici, lasciando che uomini e ragazzi si dedicassero invece a videogiochi e altre forme di intrattenimento – un fenomeno che non riguarda solo i più giovani, come di solito si pensa. Ma gli uomini devono sapere che nei libri troveranno modelli importanti per diventare persone migliori, per sviluppare al meglio il loro potenziale nei rapporti affettivi e sociali. Il settore librario deve proporre testi mirati in questo senso, aumentando anche il contingente maschile nella forza lavoro. Senza contare che estendere il pubblico ai lettori è un buon affare: perché dobbiamo abbandonare sul tavolo i soldi degli uomini?
Come valuta, a tre anni di distanza, l’impatto che il Covid ha avuto sulle fiere del libro e sulla Buchmesse in particolare?
Onestamente, credo sia una questione di cui si parla troppo. Il Covid ha insegnato all’industria a trovare modi per aggirare i problemi in circostanze terribili. I mezzi digitali che abbiamo oggi per incontrarci e lavorare a distanza vanno benissimo, così come lo è stare insieme se si preferisce. È ora di superare la pandemia.
La Buchmesse si basa su uno schema consolidato e, a quanto pare, funzionale. Tenendo conto dei mutevoli scenari globali, immagina cambiamenti a breve?
Quest’anno a Francoforte c’è una serie di incontri, Frankfurt Calling, in cui si esaminano questioni politiche. In questo modo l’editoria sottolinea come il suo ruolo nel mondo sia sempre stato politico. Nasconderlo per ragioni di mercato è inaccettabile. In un’intervista su Publishing Perspectives il presidente e ad della Buchmesse, Juergen Boos, spiega bene i legami antichi e moderni tra la fiera e la politica – e di questi temi dobbiamo occuparci, nel giornalismo e nell’editoria. Quindi no, non prevedo cambiamenti, né credo che li vogliamo.
Infine, come spiega che i maggiori gruppi editoriali sono europei, mentre il mercato più grande è quello nordamericano? Tenendo conto degli equilibri globali (pensiamo pure all’Asia), cosa prevede in futuro?
Ogni tanto se ne parla, ma di rado si arriva a una risposta soddisfacente. Nelle grandi case editrici – come Penguin Random House, ora guidata dal formidabile Nihar Malaviya, la big per eccellenza – la struttura di ogni area è sostanzialmente dedicata al proprio mercato. È una scelta precisa, e funziona. Questo è il caso dei conglomerati editoriali gestiti con maggior successo. Alla Buchmesse 2024, uno dei miei dialoghi al Publishing Perspectives Forum sarà con David Shelley, ad britannico delle divisioni statunitense e britannica della francese Hachette Livre e un altro incontro analogo sarà con Arnaud Nourry, ex capo di Hachette Livre molto rispettato, che sta creando a Parigi un nuovissimo gruppo di case indipendenti selezionate, con l’obiettivo preciso di servire gli autori meglio di quanto si sia fatto in passato. Nella mia tavola rotonda sull’editoria indipendente, Nina von Moltke, tra le fondatrici di Authors Equity a New York, ci parlerà di uno sforzo simile: spostare il potere editoriale dalle major al servizio esplicito degli autori, non dei membri dei consigli di amministrazione.
Questo penso sia un cambiamento da tenere d’occhio: i leader dei principali gruppi che creano le loro nuove società dando priorità alle fortune e al benessere degli autori. Si tratta di un esodo silenzioso dai grandi marchi? Non ancora. Ma potrebbe essere l’avvio di una nuova tendenza che mette i narratori al centro di un settore in cui le storie, in fondo, rappresentano il fulcro.
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