A Eldorado Park la rabbia è coloured
Sudafrica La polizia uccide senza motivo 16enne con sindrome di down. Tensione sociale alle stelle.Tra corruzione, violenza endemica e Covid-19, tornano gli spettri della "pigmentocrazia". Vani gli appelli alla calma di Ramaphosa, al potere da mille giorni: almeno 10 le vittime da lockdown delle forze dell'ordine
Sudafrica La polizia uccide senza motivo 16enne con sindrome di down. Tensione sociale alle stelle.Tra corruzione, violenza endemica e Covid-19, tornano gli spettri della "pigmentocrazia". Vani gli appelli alla calma di Ramaphosa, al potere da mille giorni: almeno 10 le vittime da lockdown delle forze dell'ordine
In un Sudafrica in cui il numero di contagi diminuisce sensibilmente – 639.362 casi, 15.004 morti, 566.515 guariti e 3.808,904 test all’8 settembre – e in cui si registra una recrudescenza di quella che è stata definita l’«altra epidemia», la gender based violence (GBV), si sono svolti i funerali di Nathaniel Julies, un ragazzino di 16 anni che la sera del 26 agosto, uscito per comprare dei biscotti, è stato ucciso dalla polizia. Dopo una versione iniziale secondo cui sarebbe rimasto vittima di una sparatoria tra forze dell’ordine e malviventi, è emerso che gli agenti (tre dei quali ora accusati di omicidio) hanno rimosso le pallottole dalla scena del crimine, e che il ragazzino, affetto da sindrome di down, abbia avuto un attacco di panico sentendo le sirene e vedendosi di colpo attorniato da poliziotti che lo interrogavano e che hanno aperto il fuoco in risposta alla sua agitazione.
Il giorno dopo centinaia di residenti di Eldorado Park, la township di Johannesburg dove Nathaniel Julies viveva, hanno protestato in parte lanciando pietre contro la polizia, che per disperdere i manifestanti ha fatto ricorso a granate e proiettili di gomma. L’uccisione di Julius ha fatto emergere profonde tensioni sociali: nonostante l’appello alla calma del presidente Cyril Ramaphosa, al governo da quasi 1.000 giorni, la polizia avrebbe ucciso almeno dieci persone dall’inizio del lockdown.
Al di là delle richieste di giustizia dei residenti di Eldorado Park e zone adiacenti, le blande proteste a livello nazionale parlano di una tacita rassegnazione alla violenza che mette in luce un altro problema: l’indignazione resta direttamente proporzionale al colore della pelle, e c’è chi lamenta che le reazioni sarebbero state ben diverse se le vittime della polizia avessero avuto la pelle bianca.
Ma Nathaniel Julies, come la sua Eldorado Park, era un “coloured”, categoria razziale più che mai fluida assegnata durante l’apartheid a chi non era bianco, indiano o africano, e garanzia di piccoli privilegi: a differenza dei natives (termine che designava gli africani), i coloured non necessitavano del pass, potevano accedere alla piccola borghesia, e furono spesso indotti dalla chimera dello swartgevaar (pericolo nero) a reputarsi più vicini ai bianchi.
L’uccisione di Julies sarebbe secondo alcuni prova dell’ostilità della polizia verso i residenti di Eldorado Park, ossia verso i coloured. E dopo la scomparsa, il 29 agosto, di Jürgen Schadeberg, celebre fotografo di origine tedesca che negli anni cinquanta immortalò la vitalità della cultura nera del «ghetto» cosmopolita di Sophiatown (cui molti coloured contribuirono), il 30 agosto a Eldorado Park si sono visti cartelli con scritto «Black Lives Matter». Ma altri recitavano «All Lives Matter» e «Coloured Lives Matter», slogan portatori di una risposta conservatrice (qui si direbbe liberal) al movimento statunitense: il primo perché appiattendo le differenze nega il razzismo, il secondo perché fa propria una presunta separazione tra “coloured” e “black”. Prova che le distinzioni razziali sono realtà tangibili è che nelle ore successive, in risposta a un tweet che metteva in dubbio la stessa identità coloured, sui social sono apparse celebrazioni della singolarità di questo gruppo, con foto di gestualità e mode coloured, che rivelano un persistente nazionalismo “etnico” – la pigmentocracy, come la definí negli anni ottanta Don Mattera, prima gangster di Sophiatown poi poeta, autore ed esponente del Black Consciousness Movement, e da tempo residente a Eldorado Park, il cui nonno napoletano ben prima dell’Immorality Act che proibiva i matrimoni misti aveva sposato una coloured.
Negli stessi giorni si apriva un acceso dibattito nel National Executive Committee (NEC) dell’African National Congress (ANC): in conferenza stampa Ramaphosa ha invitato parlamentari e membri del NEC a dimettersi se accusati di frode o corruzione. Il presidente ha proposto un programma anti-corruzione di dieci punti e ha detto di voler rafforzare la Integrity Commission presieduta da veterani dell’ANC (tra cui la coloured Sophie de Bryun, tra le leader della storica marcia delle donne contro i pass nel 1955), le cui raccomandazioni, in larga misura ignorate, potrebbero diventare vincolanti.
Rivelando le accuse di corruzione governativa contenute nella lettera di 12 pagine inviatagli dall’ex presidente Jacob Zuma (l’ANC è da tempo spaccato in due fazioni, pro-Zuma e pro-Ramaphosa), Ramaphosa ha risposto così: «Quando gli altri volano basso, noi li ignoriamo», cambiando sensibilmente, come ha fatto notare lo scrittore Zakes Mda, il motto di Michelle Obama: »Quando gli altri volano basso, noi voliamo alto». E il ministro delle Finanze Tito Mboweni ha fatto eco a Ramaphosa criticando, con chiaro riferimento a Zuma, chi prova a dettare legge «dalla tomba» dopo essersi adoperato nove anni per rovinare il Paese. Julius Malema, espulso dall’ANC nel 2012, “comandante in capo” dell’EFF (Economic Freedom Fighters) e sedicente «attivista rivoluzionario per un cambiamento radicale in Africa», accusa il governo di corruzione.
Il clamore di quella che è stata chiamata spring-clean (pulizie di primavera) di Ramaphosa deriva anche dal fatto che la conferenza stampa è stata indetta senza passare per il segretario generale dell’ANC Ace Magashule, implicato nello scandalo di un progetto che nel 2012 avrebbe dovuto risollevare l’agricoltura nel Free State (di cui Magashule era premier), ma che ha visto la compagnia Estina legata ai fratelli Gupta impossessarsi di centinaia di milioni di rand. Fondi pubblici che mesi dopo sarebbero serviti ai Gupta per finanziare un doppio matrimonio in un lussuoso hotel di Abu Dhabi, e un sontuosissimo terzo matrimonio nel resort sudafricano di Sun City, celebrazione cosí sfacciatamente pacchiana che ha messo in moto le inchieste giornalistiche che hanno svelato lo State Capture.
A parte il contrabbando con gli stati confinanti durante il divieto di viaggiare tra le province (revocato il 17 agosto, insieme alla vendita di alcolici e sigarette), è da poco emerso un grosso traffico illecito di personal protective equipment (PPE) che ha coinvolto compagnie vicine a politici e che ha portato alla formazione di una commissione d’inchiesta.
Oltre a violenza endemica, diatribe politiche e corruzione, il virus ha evidenziato le profonde disuguaglianze sociali. Ad aprile l’inefficace distribuzione di 250.000 pacchi di viveri e buoni pasto (in parte elargiti in contanti) affidata all’agenzia governativa South African Social Security Agency (SASSA) ha portato alcuni attivisti ad accusare il governo di erogare aiuti a chi non ne aveva stretta necessità e senza consultarsi con i leader delle comunità, che hanno preparato e distribuito pasti autonomamente e spesso trovandosi a fronteggiare la polizia che per attuare le misure di distanziamento sociale tentava di impedire la distribuzione di cibo nelle township. E a maggio, dopo aver proclamato lo stato di calamità, Ramaphosa ha introdotto il Social Relief of Distress (SRD), programma che prevede 350 rand mensili (17.50 euro) fino a ottobre (ma si preannuncia una campagna per renderlo permanente) per disoccupati (inclusi stranieri e rifugiati) senza alcun reddito, famiglie con minorenni come capofamiglia e altre categorie deboli, con 500 rand aggiuntivi per chi ha figli. Ma la SASSA ha da poco rivelato che il call center che gestisce i fondi ha solo 26 dipendenti incaricati di gestire 40 mila chiamate e 1.000 email al giorno, con 300 mila email ancora in attesa di risposta.
E mentre alcuni accademici discutono come le piattaforme digitali possano cambiare i rapporti di potere e rafforzare le università del Sud del mondo, promuovendo la cosiddetta participatory parity, la cacciata dalle residenze universitarie a fine marzo (il macchinoso processo di ritorno ai campus è tuttora in corso) ha acuito disagi economici, pratici e psicologici. Costretti a tornare nei luoghi d’origine (quindi spesso a viaggiare, rischiando di contrarre il virus), molti universitari vivono in case dove studiare è impossibile – luoghi affollati, con connessione internet lentissima ed elettricità intermittente viste le misure di load shedding causate dalla perdurante saga dell’Eskom.
Isolamento, difficoltà a stare al passo con le lezioni online o perdita di un impiego part-time hanno acuito depressione e tendenze suicide, da tempo diffuse tra i giovani. E con le scuole pubbliche chiuse per cinque mesi (le costose scuole private hanno riaperto da tempo), molti bambini sono stati privati di un pasto completo.
Ma il Covid-19 comporta scarso accesso al cibo anche per tanti adulti nel settore informale (in maggioranza neri, perché le distinzioni di classe sono ancora “razzializzate”), con conseguente riduzione della salute fisica e mentale. La fase 2 ha previsto la riapertura di fabbriche, ristoranti e altri settori, e mentre nei quartieri ricchi la gente siede nei locali senza misure di protezione, il ministro del Lavoro ha ammesso che molte imprese non sono in grado di garantire le condizioni igieniche necessarie per salvaguardare la salute dei propri dipendenti.
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