A una destra tramortita ci sono volute 48 ore per capire di dover correre ai ripari. Forse, ancor più della batosta in Sardegna, ha inciso l’incubo di ritrovarsi nella stessa situazione il prossimo 10 marzo in Abruzzo. Marco Marsilio in realtà è ancora in testa nei sondaggi ma il vantaggio si erode a vista d’occhio, l’opposizione è galvanizzata, il campo con cui vedersela non è largo ma larghissimo, contando anche i centristi.

I TRE LEADER della maggioranza sono tutti politici di lunghissimo corso: sanno che a quel punto il segnale sarebbe potentissimo e la slavina destinata a montare. Dunque si sono trincerati dietro il riparo più ovvio e più facile: la conferma di tutti i governatori uscenti, di Vito Bardi, il più fragile, in Basilicata; di Alberto Cirio in Piemonte, il meno a rischio perché i rapporti tra la 5 Stelle Chiara Appendino e il sindaco Pd che la ha sostituita, Stefano Lo Russo, sono talmente pessimi che l’alleanza pare impossibile; di Donatella Tesei in Umbria, anche se lì ci sarebbe stato tempo dato che si vota in autunno. Anche così l’Abruzzo vacilla, meglio evitare di fare al nemico di nuovo il regalone di mostrarsi divisi.

La decisione di confermare gli uscenti ha però un significato politico preciso in più e non a caso è quello a cui puntava il leader della Lega Matteo Salvini, nonostante le precedenti mire sulla Basilicata. La formula per cui gli uscenti si confermano comunque, anche quando appaiono deboli come Bardi in Basilicata, è il viatico per risolvere “amichevolmente” il caso Veneto. Il cambio di umori, dopo lo sfacelo sardo, è palese e palpabile. Prima tricolori e azzurri non esitavano a far sapere che i cancelli erano blindatissimi e la pretesa della Lega inaccettabile. Ora è tutto un «se ne parlerà più avanti» e anche a palazzo Chigi ammettono la necessità di «ragionare ancora».

TRA LE POSSIBILITÀ c’è quella di sciogliere il nesso, che pareva inscindibile, fra terzo mandato e Veneto. La presa della roccaforte leghista è la ragione principale, ma non l’unica, della resistenza della presidente del consiglio: le altre due si chiamano Emilia-Romagna e, con peso minore, Campania. Con Stefano Bonaccini in campo la conquista della piazzaforte rossa, già tutt’altro che facile, diventerebbe quasi impossibile. In Campania la permanenza in campo di Vincenzo De Luca lascerebbe la prima regione del sud in mano al Pd. È vero che anche con una spaccatura del centrosinistra conquistare il feudo di De Luca sarebbe comunque impresa quasi irrealizzabile. Ma se anche l’attuale governatore campano dovesse mantenerlo, in prima persona o se necessario con un prestanome, il Pd perderebbe comunque e l’area di potere che sostiene De Luca, in fondo, è la stessa che in passato appoggiava Forza Italia. È dunque possibile una trattativa basata sul rifiuto del terzo mandato, per colpire il Pd con il pieno accordo della stessa segretaria Elly Schlein che dei potentissimi governatori e del loro contropotere non ne può più, ma lasciando alla Lega e allo stesso Luca Zaia la scelta sul nuovo candidato.

SEMPRE CHE ZAIA si accontenti e non è detto. Il pollice verso del potentissimo governatore del Veneto sarebbe difficilmente aggirabile per diversi motivi. Salvini sarebbe costretto a impuntarsi. Se sconfitto, la sua segreteria, già vacillante, rovinerebbe in tempi record. Ma, nonostante le continue tensioni, non è affatto detto che un cambio della guardia in via Bellerio, con la resurrezione di una Lega bossiana, sia per Giorgia Meloni la cosa migliore e probabilmente lei stessa se ne rende conto. Dunque anche il terzo mandato propriamente detto è di fatto tornato in campo. Non subito. Non nel decreto Elezioni. Non con modalità che facciano apparire la premier sconfitta e umiliata. Dopo le europee, conti elettorali alla mano.